Il noto romanzo della Premio Nobel Han Kang continua a interrogarci su questioni estreme e racconta in modo magistrale ciò che possono indurci a provare
di Enzo Palladini

La vegetariana
Autrice: Han Kang
Editore: Adelphi
Traduttrice: Milena Zemira Ciccimarra
Anno edizione: 2016
Anno prima edizione: 2007 (Corea del Sud)
Genere: Moderna e contemporanea
Pagine: 177
Consigliato a chi desidera andare a fondo su certi misteri della mente umana, soprattutto sugli effetti dei soprusi subiti in tenera età.
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Gènie la matta di Inès Cagnati. Adelphi 2022. Storia dell’amore lancinante di una figlia (nata in seguito a uno stupro) per la madre, tra tenerezza e brutalità, sempre sul filo tra equilibrio e squilibrio psichico.
Il tamburo di latta di Günter Grass. Traduzione di Bruna Bianchi. Mondadori 2012. È la vicenda di Oskar, paziente di un manicomio tedesco che racconta la sua drammatica esistenza intrecciata con la storia tedesca.
Yeong-Hye all’apparenza è una donna assolutamente normale e vive in Corea del Sud. Non particolarmente bella, non appariscente. Una personalità da tutti considerata passiva, carattere sempre accomodante. Nessuna qualità che la renda attraente agli occhi del genere maschile. Ma è proprio a causa di queste caratteristiche che il Signor Cheong decide di sposarla e farne la perfetta compagna di vita. La sua attività di artista regala già di per sé momenti di alta eccitazione, il ritorno a casa deve essere il trionfo della normalità. Quella donna sembra fatta apposta.
Una notte Yeong-Hye diventa improvvisamente La vegetariana. Il marito la trova in cucina e la vede distruggere tutti i prodotti di origine animale che si trovano nel frigorifero e nel congelatore. Lo fa con movimenti quasi automatici, lo sguardo assente, perso nel vuoto. Cheong pensa a una fase temporanea nella vita della moglie, che invece smette definitivamente di mangiare carne. Alla richiesta di spiegazioni risponde: “Ho fatto un sogno”. Ma è tutto il comportamento della donna a cambiare. Inizia a rifiutare i rapporti intimi con il marito, salvo accettarli passivamente quando viene costretta. Genitori e fratelli provano a dissuaderla dalla sua decisione in tema alimentare, ma quando il padre tenta di forzarla a mangiare carne, Yeong-Hye si taglia le vene del braccio con un coltello da cucina. Immediatamente viene ricoverata in un ospedale psichiatrico, in breve tempo si separa dal marito.
Dopo essere stata dimessa dall’istituto di cura, Yeong-Hye inizia una nuova fase della sua vita. Qui scopriamo un altro particolare su di lei: la macchia mongolica. Si tratta di una formazione grigio-bluastra benigna che i bambini asiatici presentano sulla pelle alla nascita, quasi sempre nella regione lombo-sacrale. Una macchia che in genere scompare dopo i primi anni di vita, ma che Yeong-Hye ha ancora sulla parte posteriore del corpo. Questo dettaglio insolito attrae le morbose attenzioni del cognato, il marito della sorella In-Hye. L’uomo la convince prima a posare per i suoi video, poi a diventare la sua amante. Ma anche in questo caso si tratta di un rapporto malato: Yeong-Hye non è ancora pronta per affrontare la nuova vita e tutto diventa chiaro quando In-Hye scopre la tresca e fa ricoverare di nuovo la sorella in un reparto psichiatrico, dando così inizio a un nuovo terribile calvario.
Immagini atroci ma immensamente poetiche si susseguono nel racconto. Lo stile di Han Kang è eccelso, riesce a rendere comprensibili aspetti quasi imperscrutabili della mente umana. Ce ne accorgiamo soprattutto nella prima delle tre parti in cui è suddiviso il libro, in cui ci sono due voci narranti, quella del Signor Cheong e quella di Yeong-Hye. Il contrasto è sublime. Da una parte il marito parla della moglie con disprezzo, ammette di non averla mai amata, ma di averla sposata per quieto vivere. Dall’altra la protagonista del romanzo (riconosciamo il suo punto di vista perché è evidenziato in corsivo) traspone sulla carta i suoi deliri, i suoi sogni cruenti e sofferti, i suoi ricordi traumatici. Cominciamo a capire che alle spalle della sua ribellione c’è un’infanzia complicata, rovinata da un padre violento e dispotico, condizionata da imposizioni che si sono trasformate in pesantissime turbe psichiche.
Han Kang, nata nel 1970, ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2024. Anche nel suo passato c’è una tragedia segnante: il massacro di Gwangju, la città in cui è nata. Nel 1980, quando la scrittrice aveva dieci anni, alcune migliaia di persone vennero trucidate in seguito a una rivolta organizzata contro la dittatura di Chun Doo-hwan. La scrittrice, insieme al padre (a sua volta scrittore) e alla madre, fu costretta a fuggire nella capitale Seul, dove la famiglia si stabilì definitivamente. La sofferenza, il male di vivere sono concetti molto presenti in ogni rigo di questo romanzo. C’è sangue, ci sono lacrime, c’è il senso di inadeguatezza nei confronti del mondo per il solo motivo di essere andati in qualche modo contro le regole, nel caso specifico per aver adottato la scelta di togliere la carne dall’alimentazione, incomprensibile ai più.
La vegetariana ha rappresentato indubbiamente un fattore decisivo per l’assegnazione del Premio Nobel a Han Kang. È un romanzo che attrae e inquieta allo stesso tempo, che non solo apre orizzonti nuovi nella vita ma scatena anche interrogativi epocali. A un certo punto Yeong-Hye, che vive in un letto d’ospedale quasi allo stato vegetativo e rifiuta ogni tipo di alimentazione artificiale, in un attimo di lucidità chiede alla sorella: “È così terribile morire?”. Una domanda cui In-Hye non sa rispondere, così come nessun lettore. È un quesito apparentemente banale, ma che non avrà mai una risposta, perché la morte è il più grande dei misteri di questo mondo.
La scrittura di Han Kang, con il carico di dolore che si porta appresso dall’infanzia, sembra fatta apposta per aprire questi orizzonti, per raccontarci in maniera magistrale cosa si possa provare in certe situazioni estreme.
Il libro in una citazione
«Un grumo formato da urla e gemiti aggrovigliati, intrecciati tra loro uno strato dopo l’altro. È per la carne. Ho mangiato troppa carne. Le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo, e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere.»
29 maggio 2025
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