Caso editoriale internazionale, il saggio del russo Alexander Baunov scava con passo narrativo nelle profondità delle ultime dittature dell’Europa occidentale e immagina il destino della Russia di Putin
di Raffaele Nuzzo

La fine del regime. La caduta di tre dittature europee e il destino della Russia di Putin
Autore: Alexander Baunov
Traduttore: Riccardo Mini
Editore: Silvio Berlusconi
Anno edizione: 2025
Genere: Storia
Pagine: 626
Consigliato a chi è interessato ai saggi di politologia, alle dittature, al comunismo, al franchismo, alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia, alla Russia.
Come nasce un regime? Come si sviluppa? Come muore? Oppure, come cambia e si trasforma? Soprattutto come possono interi popoli adottare in modo supino il pensiero unico? Forse chi ha vissuto nei primi decenni del Novecento avrebbe una risposta in tasca a differenza di chi, in Italia, è nato in un Paese già democratico e fatica a concepire sistemi a esso diametralmente opposti. Che sono esistiti ed esistono tuttora, perché l’uomo è come il lupo che perde il pelo, ma non il vizio. E la libertà non è mai un vizio, piuttosto è una conquista da preservare.
La fine del regime è il libro che può rispondere, anche esaustivamente, alle domande di cui sopra. L’autore, il russo Alexander Baunov, conosce l’argomento e nell’ampia premessa illustra i motivi per cui è finito nel novero degli “agenti stranieri” (inoagent, in russo), la moderna versione di “purghe staliniane” in voga nella sua Russia, dove periodicamente il governo aggiorna una lista di personaggi sgraditi. Gli esempi che Baunov porta nel testo sono quelli della “terza ondata” di totalitarismi europei in Spagna, Portogallo, Grecia per arrivare poi al crollo, per effetto domino, del regime sovietico e dei suoi satelliti in Europa dell’Est.
Il racconto della Spagna franchista va a ritroso, partendo dal novembre 1976. Il nipote di Primo De Rivera, il generale che fu la primissima cellula della rivoluzione franchista, è in Parlamento davanti ai cosiddetti procuradores (una particolare forma di deputati) per proporre una riforma politica. Sembra un paradosso che vincitori e vinti della guerra civile e il discendente di chi promosse di fatto l’ascesa del dittatore spagnolo siano insieme per legiferare. Eppure, tutti votano a favore della riforma, che imprime una svolta democratica al Paese. Tutti, compresi quelli che quarant’anni prima erano con Francisco Franco, che ne avevano appoggiato in armi la sua presa del potere. Baunov cita questo particolare fatto storico associandolo a un’encomiabile espressione di volontà democratica propria di un Paese evoluto: gli ex franchisti che rinunciano ai loro privilegi e formano una repubblica parlamentare, forse anche perché uniti dalla paura del dopo-Franco, stesso motivo per il quale il suo regime ebbe così lunga durata.
La Spagna di Franco sorse dalle ceneri di una sanguinosa guerra civile, durata un triennio e combattuta tra Fronte popolare e Falange, tra rossi e neri, tra repubblicani e nazionalisti. L’autore ne dipinge con dovizia di particolari la genesi e la conclusione, che avvenne senza spargimenti di sangue, secondo un’indolore trancición o “democratizzazione concordata”. Un processo delicato, che si svolse pacificamente grazie allo spettro della brutale guerra civile, che fu scontro tra esponenti delle destre e comunisti d’Europa, smaniosi di difendere e imporre le rispettive ideologie. Quel caos interno, quell’entropia che neanche l’allora casa reale seppe domare, mutò nel perfetto ordine del Generalissimo, figura politica ambigua che si credeva temporanea come di solito lo erano i militari, sorta di commissari straordinari fugaci ripristinatori dell’ordine.
Se il Caudillo venne fuori da una caserma, António de Oliveira Salazar uscì da un’aula universitaria del vicino Portogallo. Se il primo conquistò il potere riportando ordine in Spagna in modo cruento, il secondo dovette la sua ascesa al fatto di essere riuscito a risollevare l’economia del Paese senza violenze. Denominatori comuni delle due dittature furono l’avversione al comunismo e la neutralità nel secondo conflitto mondiale, sebbene il leader spagnolo fosse allineato con l’Asse e il Professore avesse “affittato” le Azzorre agli Alleati. Queste posizioni fruttarono al Portogallo l’invito a entrare nella Nato, nell’Onu e i benefici del Piano Marshall al contrario della Spagna, che fu esclusa da tutti e tre gli istituti. Secondo uno schema già visto e rivisto, Franco utilizzò l’isolazionismo dettato da agenti esterni per meglio cementare l’unità nazionale in base al teorema “gli altri cambiano e non noi”. Ulteriore materiale idoneo per la retorica di Franco che, in ogni caso, rilanciò l’economia nazionale affidando il governo alle liberalizzazioni della Opus Dei dei tecnocrati.
Era il boom spagnolo degli anni Cinquanta e Baunov spiega con validi tecnicismi la destrezza con cui quel gruppo di potere modernizzò la Spagna pur senza sbiadirne la rigida impronta istituzionale. Poi arrivò la fase del “disincanto” sul finire degli anni Settanta, l’avvento della democrazia coincise con decrescita economica, disoccupazione e criminalità tali da far rimpiangere la dittatura. Negli stessi anni, in Grecia, salì al potere la giunta dei “colonnelli neri”, favorita dagli Usa. In Portogallo, deposto Salazar, Caetano ebbe inizialmente la mano larga in tema di concessione di più diritti, per poi stringere di nuovo la vite.
Da notare quanto si somiglino le rivoluzioni che, nei casi spagnolo e portoghese, nacquero esattamente dalla casta degli ufficiali. Dal loro malcontento, si creò il Movimento dei capitani, desiderosi dell’“uomo forte” dopo la dittatura. Erano ufficiali oltraggiati da un inaccettabile sistema di arruolamento, che li parificava a personale di carriera con una formazione di gran lunga più breve. Scatenarono una rivoluzione-lampo che in ventiquattr’ore scaraventò il Portogallo da un regime destrorso a uno di stampo comunista, dove tutto venne collettivizzato: ci furono effetti devastanti su moneta ed economia locale, si accesero faide interne tra Nord conservatore e Sud riformista rosso. Perché da una dittatura di un orientamento ne può sorgere una dell’orientamento opposto e, addirittura, la parte dello stesso colore può frammentarsi a sua volta, com’è accaduto alla sinistra portoghese. Ma la rivoluzione in Portogallo, quella dei garofani, insegna pure che non sempre chi dall’opposizione predica riforme è poi in grado di attuarle quando si ritrova al governo e che uomini della nomenklatura – vedi Boris Yeltsin e Adolfo Suárez – tentando di sovvertire il sistema che li ha allevati ne rimangono talvolta schiacciati.
Stesso corso quello della Grecia, dove a scatenare una rivolta studentesca ad Atene fu l’annullamento del rinvio militare. Anche qui, come in Spagna e Portogallo, dopo le prime concessioni in fatto di libertà, il regime si inasprì di nuovo per poi crollare. Spesso accade che il leader venga defenestrato dopo una sconfitta militare e ne sono un esempio la giunta greca e quella argentina, congedate dopo aver perso rispettivamente la guerra per Cipro e quella per le Malvinas. E anche in Grecia, come in Spagna, i monarchi Costantino II e Don Juan andarono in esilio, mentre differente fu il percorso postdittatura. Infatti, se nel Paese ellenico – dove la tirannia durò relativamente poco – fu stato semplice trovare politici in grado di ripristinare un governo repubblicano, in Spagna e Portogallo – dove i regimi ebbero vita più lunga – fu decisamente più complicato. Questione di know-how e scarsa scolarizzazione democratica, dovuta ad anni di buio autarchico.
Se nella prima metà del libro Baunov fa pochi riferimenti alla questione russa, questi si fanno sempre più frequenti nella seconda. La figura di Vladimir Putin riassume in sé la crème della Russia del Novecento: liberalismo economico di Boris Yeltsin, prestigio internazionale dell’ex Urss e impero degli zar con richiami alla Rus’ di Kiev. Questo, ovviamente, secondo la sua personale narrazione. L’autore è convinto che l’attuale presidente russo condivida più che mai la storia della sua ascesa con Salazar. Con un Yeltsin ormai impopolare e in irreversibile declino, Putin è infatti è riuscito a impadronirsi del potere senza alcun golpe, assoggettando i vari ministeri; ha fatto decollare l’economia del Paese, che era reduce dal collasso degli anni Novanta e ha ottenuto una fulminea vittoria militare contro la Cecenia nel 1999. I consensi per Putin sono saliti alle stelle proprio per questi motivi, perciò egli può essere senza dubbio considerato Franco e Salazar nella stessa persona. Si intuisce pertanto quanto, nei processi di cambiamento di governo, sia incisiva l’economia e la guerra nell’accreditamento del leader presso il suo popolo. Tuttavia, il modus operandi di Putin è in controtendenza rispetto a quello di Franco e Salazar. Se in principio il capo del Cremlino è parso liberale e vicino ai cittadini e ha cercato di collocarsi in posizione intermedia tra nostalgici e occidentalisti, con gli anni il suo governo è divenuto a mano a mano più restauratore che mai. Le reprimende intestine e le dinamiche elettorali sono la prova che il consenso nei suoi confronti non è solido come vorrebbe far sembrare. Analogamente a Franco e Benito Mussolini, anche Putin risponde col suo spavaldo “Me ne frego!” a sanzioni ed emarginazione internazionali, anzi. Storia già vista in ogni autarchia che si rispetti, ne approfitta per vittimizzare il suo Paese e scovare gli scheletri negli altrui armadi, rimanendo poi fiducioso per la ripresa delle relazioni diplomatiche.
La propaganda in Russia – come fu nella Spagna franchista – da un lato sfrutta l’emarginazione internazionale per vittimizzarsi e dall’altro la usa per autocelebrarsi come “società eletta”, ovvero scevra della corruzione dei costumi in Occidente. E non importa se, per rimanere moralmente integri, occorra sacrificare il progresso tecnologico e patire il relativo clivage con altri Paesi. In virtù di ciò, analogamente alla Grecia dei Colonnelli, in Russia si respira attualmente un esagerato orgoglio nazionale, autoreferente con continue rievocazioni di un glorioso passato. Tutte condizioni che purtroppo sfociano in un pretestuoso panrussismo con annesse mire espansionistiche.
La storia poi insegna che ogni leader supremo vive col mito dell’immortalità ed è sempre restio a nominare un successore. È successo con Franco, con Salazar – col quale si è dovuto addirittura inscenare un siparietto per fargli credere di essere ancora al comando – e succede oggi con Putin, che inventa guerre per credersi ancora vigoroso. In ogni caso, morto il tiranno, rimane comunque chi ne vuol fare un altro e ne sono dimostrazione le eterne contrapposizioni tra riformisti e conservatori che hanno abbondantemente interessato questi Paesi. Non si chiudono mai veramente i conti col passato, in special modo per certi popoli – come russi e cinesi – per i quali voltare pagina è più arduo rispetto ad altri (spagnoli e portoghesi) che, a dittatore scomparso, sono riusciti a liberarsi anche della dittatura. In Russia e Cina diversi capi di governo si sono macchiati di atrocità, pertanto un cambio al vertice non è scontato sia foriero di cambiamenti in positivo. Non per niente la cosiddetta “primavera” che in altri contesti assume il significato di importanti inversioni di rotta, in Russia si definisce prudenzialmente “disgelo”, sottolineando la propensione del popolo a sottostare a un sistema autoritario.
Parole come “stabilità” e “pace” rivestono molteplici e sibillini significati quando sono usate dai leader indiscussi di un regime. Assunti del tipo “dittatura-ordine sociale” vengono sconfessati dai fatti di Spagna, dove il regime franchista non è riuscito a debellare il separatismo basco. Segno che, a volte, alcune associazioni sono chiaramente falsi miti. Le associazioni con determinati periodi storici incutono però quella paura che, per esempio, spinge i russi a prediligere un governo autoritario rispetto a uno di matrice occidentalista poiché sono rimasti scottati dal disastro socioeconomico degli anni Novanta, cagionato esattamente da quelle aperture. Accadde lo stesso agli spagnoli che, nel tentato golpe del 1981, non scesero in piazza perché terrorizzati dal terribile ricordo della sanguinosa guerra civile degli anni Trenta.
Con La fine del regime, che sta riscuotendo notevole successo internazionale e che in Russia è stato boicottato dalle agenzie di telecomunicazione, Baunov è definitivamente finito nel mirino dell’establishment del suo Paese. Anche per questo motivo, l’autore vive all’estero, tra Berlino e Firenze. Nel suo ricco bagaglio di esperienze spicca un passato da ambasciatore per la Russia presso Atene, una laurea in filologia antica, una specializzazione in politica internazionale moderna e una carriera da giornalista.
La fine del regime è un trattato di ricerca sulle radici profonde dei regimi, una loro analisi scientifica e un approfondimento su importanti figure politiche. Non è un saggio adatto a tutti, perché scritto con registro tecnico da esperto storico, a tratti prolisso. Per una buona causa s’intende.
L’esposizione dei fatti storici non batte nessuna bandiera politica, pur inducendo il lettore a paragonare il racconto con l’attuale contesto russo. Tutto ciò con una paziente e lunga irrorazione di informazioni, una narrazione stillata a “goccia cinese”, nel senso che il testo accompagna a piccoli passi il lettore, argomenta “a fuoco lento” e lo aiuta a chiudere il cerchio, a trarre le sue conclusioni, a carpire la “morale della favola” che Baunov mai rivela.
Viene stilata un’anatomia delle dittature in un coacervo di concetti che vanno dalla pura cronaca alla politologia più rude, con analogie, schemi, calcoli. Si può tranquillamente dichiarare che il saggio è un illuminante costrutto della fisiologia dei regimi in questione. Da ricercatore puntiglioso, Baunov firma un documento storico davvero immenso e iperparticolareggiato.
Nonostante l’imponenza dell’opera, lo scrittore è stato abile a puntellarla di flashback, saltando da un argomento all’altro e riuscendo comunque a non perdere l’attenzione del lettore. In sintesi, La fine del regime è una monumentale ricostruzione storica, contornata da considerazioni ragionate oggettivamente, un manuale di storia lucido con giusto qualche abbandono sporadico a passaggi romanzati, che scoperchiano la micidiale ed efficiente macchina della dittatura, illustrandone il funzionamento tra rivoluzioni, “bunker”, leader, esercito, oppositori, militanti. Con ciò, Baunov dimostra che gli intrighi di palazzo architettati in Spagna, Grecia, Portogallo e Russia – nodosi e ingegnosi nelle visioni dei protagonisti – miravano a fingere di destabilizzare il sistema per poi riconfermarlo. È come se l’autore avesse effettuato tutto il suo gran lavoro di ricerca per sottolineare che la storia è come un’equazione, che certi risultati sono quasi matematici, indipendentemente dal luogo in cui i fatti avvengono. Tranne che per la Russia, soggetto sociopolitico alquanto anomalo, che merita uno studio a sé per l’anacronismo in cui è precipitato e per le lezioni forse mai imparate dal suo passato. Ragion per cui Winston Churchill la definì “un rebus avvolto nel mistero che sta dentro a un enigma”. Baunov ne smonta le tesi cospirazioniste, la dezinformacija sempre attiva, la propaganda che ne ha ipnotizzato le masse provocando una pericolosa impennata di revanscismo, accompagnata da un’assurda compressione dei diritti civili. Che hanno condotto a guerre spacciate per giuste ed esistenziali, ma in verità tutt’altro che tali. Non ancora, purtroppo, a quelle latitudini, sufficientemente impopolari. È proprio vero che la storia è maestra di vita.
Il libro in una citazione
«Mentre in molte altre società analoghi periodi di promettente speranza in un’apertura sono stati denominati “primavere”, i russi parlano proprio di “disgelo”, come se considerassero la parola “primavera” eccessivamente ottimistica. E hanno quasi sempre ragione.»
7 maggio 2025
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