• Home
  • Community
    • Le parole nei libri
  • Recensioni
    • Letteratura
      • Classici
      • Storia e critica letteraria
    • Narrativa
      • Fantascienza
      • Fantasy
      • Fumetti & Graphic Novel
      • Gialli & Noir
      • Horror & Gotico
      • Moderna e contemporanea
      • Racconti
      • Romanzo rosa
      • Romanzo storico
      • Umorismo
    • Varia
      • Arte e spettacoli
        • Arte
        • Cinema
        • Musica
      • Cucina
      • Filosofia
      • Linguistica
      • Media e Comunicazione
      • Scienze
        • Psicologia
      • Società
      • Sport
      • Storia
      • Storie vere
        • Autobiografie
        • Biografie
        • Memoir
        • Reportage
    • Bambini e ragazzi
      • Da 3 anni
      • Da 4 anni
      • Da 5 anni
      • Da 6 anni
      • Da 10 anni
      • Da 12 anni
      • Da 14 anni
  • Speciali
  • Playlist

Let's Book

Libri per chi ama davvero leggere

Valerio Valentini, la fragilità identitaria è segno dei nostri giorni

In Ci sono molti modi l’autore romano indaga il vuoto esistenziale indotto dalla società contemporanea attraverso la storia di un uomo che fa il “traghettatore di anime” per professione

Intervista di Sabrina Colombo

Valerio Valentini, autore di "Ci sono molti modi" (Readerforblind)

In Ci sono molti modi Valerio Valentini racconta la storia di Riccardo – un giovane uomo precocemente vinto dalla vita, un emarginato incapace di uscire dall’isolamento – che si inventa un lavoro decisamente fuori dal comune: il “traghettatore di anime”, esperto nell’individuare per ogni singolo cliente la tecnica più idonea a lasciare precocemente questo mondo. È una missione la sua, oppure un modo come un altro per sbarcare il lunario: cinismo o disagio mentale?
Sullo sfondo, c’è la periferia romana e la cittadina di Ladispoli, grigia e respingente, onirica e surreale, in cui il protagonista matura la sua solitudine esistenziale e dove l’autore vive. Riccardo si muove in un mondo parallelo, un girone dantesco sospeso tra sogno e realtà, dove non c’è spazio per l’empatia e il calore: un “non luogo” abitato da anime disperate in cerca di sollievo dalla malinconia, dal senso di fallimento e inutilità che le avviluppa dopo avere raggiunto la consapevolezza che per loro non esiste possibilità di riscatto. Di questo e altro abbiamo parlato con Valentini, che con Ci sono molti modi ha firmato il primo romanzo.

Il protagonista del romanzo si definisce “un’Arpia e aiuto ad attraversare il Flegetonte” e anche: “Io sono la parola fine”. È un uomo giovane, fragile e insicuro, che si sente irrimediabilmente sconfitto dalla vita: c’è molta amarezza e pessimismo nelle sue parole. È solo la delusione amorosa che ha subito ad averlo indotto a scegliere di fare il “traghettatore di anime”, se così si può dire? Lo potremmo definire un uomo depresso?
Sicuramente la delusione amorosa ha rappresentato un momento di rottura nella vita del protagonista, ma considerare la sua scelta di diventare una sorta di “traghettatore di anime” una semplice vendetta o reazione sentimentale sarebbe estremamente riduttivo. In realtà, è solo la punta dell’iceberg, forse il fattore più marginale, seppur simbolicamente significativo. Alla base della sua decisione c’è un malessere profondo, esistenziale, che affonda le radici nella noia e nell’apatia che pervadono la sua vita quotidiana. È un uomo giovane, ma già disilluso, che si sente sconfitto prima ancora di aver davvero combattuto. La sua fragilità non è solo emotiva, ma anche identitaria: non sa chi è, non sa dove andare, e soprattutto non riesce a trovare un senso nel mondo che lo circonda. La società moderna, in questo contesto, non offre alcun appiglio: è una realtà fredda, impersonale, che tende a isolare l’individuo invece di connetterlo. I legami umani sono superficiali, le esperienze svuotate di significato. In un mondo così, il protagonista si rifugia in un ruolo paradossale e simbolico – quello dell’Arpia, dell’essere che accompagna le anime attraverso il Flegetonte – come estrema forma di coerenza rispetto alla sua visione del reale: un mondo dove la morte o, meglio, l’annullamento emotivo sembra l’unica dimensione sincera. In definitiva, la sua è una scelta dettata da un intreccio di cause: la delusione amorosa come detonatore, certo, ma poi un più vasto senso di smarrimento, d’inutilità e di ribellione silenziosa contro una realtà che non offre alcun senso né possibilità di riscatto. È per questo che può affermare con freddezza: “Io sono la parola fine”. Non tanto perché vuole distruggere, ma perché non riesce più a immaginare un inizio.

La copertina del libro "Ci sono molti modi" di Valerio Valentini (Readerforblind)

Ci sono molti modi
Autore: Valerio Valentini
Editore: Readerforblind
Anno edizione: 2025
Genere: Moderna e contemporanea
Pagine: 350

Consigliato a chi vuole leggere un romanzo profondo, che tratta il tema della solitudine, del vivere al margine, dell’incapacità di adattarsi a un contesto sociale che manca di empatia e capacità di ascolto.

a


Potremmo definire Riccardo una specie di “professionista del settore” che agisce con il consenso del proprio cliente. Ha condotto ricerche particolari su casi di cronaca in qualche modo avvicinabili ai fatti che ha scelto di narrare?
Sì, ho condotto un lavoro di ricerca piuttosto ampio, ma con un’attenzione specifica rivolta alle cause profonde che portano una persona a scegliere di porre fine alla propria vita, piuttosto che ai metodi in sé – anche se questi ultimi sono stati comunque oggetto di approfondimento – soprattutto per dare al protagonista una caratterizzazione realistica, meticolosa e credibile nel suo “lavoro”. Ciò che mi interessava maggiormente era scavare nelle motivazioni, nei meccanismi interiori e nei vuoti esistenziali che spesso si nascondono dietro la decisione estrema del suicidio. Ho cercato di comprendere come si arrivi a quella soglia, cosa spinge davvero una persona a varcarla: non si tratta solo di dolore, ma anche – e forse soprattutto – di un’incapacità profonda di comunicare, di essere ascoltati, di trovare un senso alla propria presenza nel mondo. La società contemporanea, con i suoi ritmi, le sue aspettative e le sue solitudini, gioca un ruolo importante. Molti dei casi reali che ho esaminato parlavano proprio di questo: persone che si sono sentite invisibili, inadatte, isolate, incapaci di trovare il proprio posto, come se esistessero solo ai margini di una realtà che non le contempla davvero. Attraverso Riccardo ho cercato di rappresentare tutto ciò: non solo come osservatore, ma quasi come una figura che, nella sua distorsione, cerca di dare una forma al dolore altrui. Il suo è un ruolo estremo, certo, ma nasce da un’empatia malata con chi non ce la fa più. In fondo, più che un “professionista della morte”, è un uomo che cerca, disperatamente, un senso nella fine.

Nel romanzo la provincia è un luogo grigio e triste, che l’intervento dell’uomo ha saputo spogliare di ogni bellezza, ma basta spostare di poco il luogo dei fatti (Castel Sant’Angelo) perché i personaggi assumano un’altra leggerezza nel relazionarsi fra loro. La “periferia” è un “luogo interiore” o una condizione puramente ambientale?
La periferia, nel mio romanzo, è decisamente entrambe le cose. Chi vive ai margini delle grandi realtà, fisicamente e simbolicamente, spesso sviluppa anche un senso di marginalità interiore. Non è solo una questione geografica: è un modo di percepirsi e di percepire il proprio ruolo – o la mancanza di esso – all’interno di una società contemporanea che tende sempre di più a isolare chi non è perfettamente inserito in certi meccanismi, in certe dinamiche sociali, culturali, economiche. Essere “defilati” significa spesso anche sentirsi trasparenti, non ascoltati, non visti. La periferia, in questo senso, diventa uno stato d’animo, una postura esistenziale, un senso di estraneità rispetto al centro del mondo – che non è solo fisico, ma anche simbolico. Allo stesso tempo, però, c’è anche una forte componente ambientale: le periferie sono spesso luoghi spogli, funzionali, trascurati. Non perché manchi la bellezza in sé, ma perché manca la cura. Se passi otto, nove, dieci ore al giorno a lavorare in una città che ti fagocita e poi torni “a casa” solo per dormire, la periferia smette di essere uno spazio da abitare davvero, e diventa un non-luogo. Questo contribuisce a creare un senso di disconnessione non solo con il paesaggio, ma con se stessi. È per tale ragione che, nel momento in cui sposto l’azione anche solo per poche pagine in un luogo come Castel Sant’Angelo – con una vista che toglie il fiato, carica di storia, bellezza e apertura – i personaggi si alleggeriscono, si parlano in modo diverso. Cambia il respiro, cambia il ritmo, cambia il modo di stare al mondo. Come se, per un attimo, anche il loro “luogo interiore” si permettesse di uscire dalla periferia.

Perché Riccardo si definisce “una bestia di provincia”?
Perché vi ha sempre vissuto, e con il tempo ha finito per assorbirne non solo i ritmi e i silenzi, ma anche il senso di marginalità, di chiusura, quasi di claustrofobia esistenziale. La provincia per lui non è solo un luogo geografico, è diventata un modo di essere, una corazza che ha imparato a indossare, forse per difendersi da tutto ciò che il mondo esterno – più ampio, caotico, esigente – avrebbe potuto offrirgli, ma che lui ha sempre percepito come distante, minaccioso, e soprattutto inadatto a sé. Nel definirsi in quel modo, Riccardo esprime una consapevolezza amara: sa di essere “ai margini” non solo fisicamente, ma anche emotivamente. La provincia è diventata il suo guscio, il suo riparo, ma anche la sua prigione. Un luogo dove può restare invisibile, protetto, ma dove al tempo stesso è condannato a non evolvere, a non sentirsi mai pienamente parte di qualcosa di più grande. “Bestia” perché si sente istintivo, forse goffo, estraneo alle dinamiche raffinate e veloci della città; “di provincia” perché quella dimensione periferica l’ha interiorizzata fino a farne identità. È una definizione che unisce orgoglio e rassegnazione, difesa e autoironia. In fondo, è anche un modo per giustificare il proprio senso di estraneità al mondo: non è colpa sua se non sa stare “al centro”, è che è nato e cresciuto altrove, e ora non sa – o forse non vuole – essere diverso.

Riccardo si presenta al lettore come un uomo freddo e determinato, con un approccio quasi scientifico nello svolgimento del suo incarico: è un cinico opportunista che approfitta del malessere altrui?
No, Riccardo è tutto fuorché un opportunista. Anche se a una prima lettura può apparire freddo, distaccato, quasi chirurgico nel suo modo di agire, in realtà ciò che lo muove non è il guadagno personale. Il compenso che riceve è infatti del tutto simbolico, quasi una formalità, un modo per dare una forma concreta a un rapporto che in realtà è profondamente emotivo, anche se lui fa di tutto per non darlo a vedere. La sua meticolosità non nasce dal cinismo, ma da un desiderio autentico di non infliggere ulteriore sofferenza a chi si rivolge a lui. Vuole che tutto sia “pulito”, controllato, quasi rispettoso, come se attraverso quella precisione volesse restituire un briciolo di dignità a un gesto estremo. In questo senso, si potrebbe dire che Riccardo si prende cura, a modo suo, di chi ha deciso di andarsene. E, paradossalmente, nel rapporto con queste persone cerca proprio ciò che a lui manca: l’empatia. Si pone come confidente, come ultima voce da ascoltare o da cui farsi ascoltare, ma nel farlo spera anche di assorbire qualcosa che gli sfugge, che sente distante, ma desidera profondamente. In fondo, ogni incontro è per lui una ricerca: tenta di colmare un vuoto, di capire cosa rende gli altri ancora capaci di provare emozioni, mentre lui si sente emotivamente atrofizzato. Riccardo è un uomo in frantumi che ha fatto della sua frattura un mestiere, non per sfruttare il dolore altrui, ma per entrarci in punta di piedi, cercando – forse invano – un riflesso della propria umanità perduta.

A un certo punto il protagonista vacilla: quanto più empatizza coi suoi utenti tanto più dubita sull’opportunità del suo intervento. Sembra sempre più combattuto, col passare delle pagine: che ruolo ha la speranza nel romanzo?
La speranza nel romanzo c’è, ma non è quella classica, luminosa, salvifica. È una speranza fragile, sottile, spesso appena percettibile, che si intreccia costantemente con il dubbio, con la stanchezza, con una forma profonda di malinconia. Riccardo, a mano a mano che si avvicina ai suoi “utenti”, comincia a vacillare proprio perché sente crescere dentro di sé qualcosa che non sa nominare: un bisogno di contatto, di vicinanza, forse persino di redenzione. E più si avvicina a queste persone, più si interroga sul senso del suo intervento, sulla linea sottile tra il rispetto per una scelta e la tentazione di opporsi a quella scelta. Ma più che un romanzo sulla speranza, questo è soprattutto un romanzo sulla resistenza. Intesa non come lotta eroica, ma come una forma quotidiana e silenziosa di opposizione a una vita che si è fatta, per ciascuno dei personaggi, insopportabilmente complicata. Tutti loro, in fondo, hanno provato. Hanno resistito. Hanno affrontato la vita con le poche armi a disposizione, e lo hanno fatto per molto tempo. Hanno stretto i denti, hanno tenuto duro, hanno continuato a cercare un posto, un senso, un respiro. Alla fine, però, la vita ha avuto la meglio. O almeno così sembrerebbe. Ma il loro gesto finale – per quanto radicale – non è una resa. È una forma estrema di affermazione, un modo per decidere, finalmente, qualcosa per sé. Per andarsene a modo loro, quando e come vogliono, in barba a un’esistenza che li ha sfidati e feriti fino all’ultimo. È una scelta dolorosa, certo, ma profondamente umana. E proprio lì, nel dubbio che consuma Riccardo e nella forza tragica dei suoi “utenti”, si nasconde forse l’unica speranza autentica del romanzo: quella di essere ancora liberi, almeno per un ultimo istante.

L’evoluzione del personaggio e della storia va di pari passo con la visione su YouTube (da parte di Riccardo) di un video relativo a una trasmissione televisiva in cui la conduttrice indulge ampiamente nel mostrare il dolore altrui. Il protagonista della puntata è un venditore porta a porta di audio bibbie, reduce da ripetute débâcle professionali, a più riprese umiliato e irriso dalla ex moglie. È più corretto parlare di un parallelismo fra Riccardo e il “venditore di audio bibbie” (due uomini sconfitti e depressi) o fra Riccardo e la conduttrice (entrambi privi di scrupoli nello speculare sulla disperazione di persone fragili e sole)?
È decisamente più corretto parlare di un parallelismo tra Riccardo e la conduttrice. Quello che volevo mettere in luce, infatti, è una similitudine inquietante tra due mondi apparentemente lontani: Riccardo, che “guadagna” simbolicamente dalla morte altrui, e quei programmi televisivi che, in modo ben più plateale e redditizio, lucrano sul dolore delle persone, trasformandolo in spettacolo. Entrambi, in fondo, si nutrono della fragilità: Riccardo in modo silenzioso, ambiguo, con una cura che non è esente da contraddizioni; la conduttrice, invece, in modo sfacciato, con lustrini e finte lacrime, offrendo al pubblico un pasto emotivo a base di fallimenti, umiliazioni, confessioni strappalacrime. C’è poi un altro livello di contrasto su cui ho voluto lavorare: quello tra chi, come gli “utenti” di Riccardo, cela il proprio dolore fino all’ultimo, rendendolo quasi sacro, inviolabile, e chi invece – come il protagonista della puntata televisiva – lo espone pubblicamente, forse nella speranza di essere visto, accolto, o anche solo per disperazione. Questa contrapposizione è il cuore del mio intento: porre una domanda al lettore. Chi è davvero l’Arpia? Riccardo, che offre una via d’uscita estrema ma con apparente rispetto, o la televisione, che dissangua lentamente l’anima di chi ha bisogno d’aiuto, travestendo lo sfruttamento da intrattenimento? Non do una risposta netta, perché non voglio giudicare. Ma desidero che il lettore si fermi a riflettere su questo punto: chi specula di più sulla sofferenza altrui? E quale forma di spettacolarizzazione del dolore siamo disposti ad accettare – e a guardare – senza farci domande?

Banana Yoshimoto in un suo romanzo – Il dolce domani, che tratta della rinascita emotiva dopo un lutto – fa dire a un suo personaggio: “La morte non ci cresce dentro con il passare degli anni, è sempre a un passo da noi”. Come commenterebbe questa frase Riccardo?
È una frase che rispecchia perfettamente non solo il mio pensiero, ma anche – e forse ancor di più – quello di Riccardo. La morte, per lui, non è un evento lontano, improvviso o raro. È una presenza costante, silenziosa, che accompagna ogni momento dell’esistenza. In un passaggio del romanzo, Riccardo afferma proprio questo: “Viviamo con il costante pensiero della morte, in ogni forma di noi, in ogni particella, in ogni atomo. In ogni vita abbiamo sempre la stessa paura della morte”. È una consapevolezza che lo accompagna da sempre, come un’eco che non si può ignorare. La frase di Banana Yoshimoto è, in questo senso, quasi un riassunto del modo in cui Riccardo percepisce il mondo. Non è l’età a farci sentire il peso della fine, ma la nostra stessa natura umana, fatta di limiti, di vulnerabilità, di una costante tensione tra il voler vivere e il sapere che, prima o poi, tutto finirà. Riccardo non rimuove mai questa idea. Al contrario, ci costruisce sopra il suo ruolo, il suo comportamento, la sua visione del mondo. Il suo rapporto con la morte non è spettacolare né tragico: è intimo, quotidiano, quasi biologico. La paura della morte, per lui, è la paura dell’invisibilità, della solitudine, della mancanza di senso – ed è ciò che lo accomuna a tutti i suoi “utenti”. Quindi sì, quella frase di Yoshimoto avrebbe potuto scriverla Riccardo stesso. Perché la morte, per lui, non è il contrario della vita: è il sottofondo su cui tutto si muove.

Nella presentazione di copertina si legge che lei “ha all’attivo diverse pubblicazioni di racconti che però preferisce non menzionare”. Nulla di meglio per incuriosire i lettori. Perché non vuole menzionarle?
Meglio non menzionarle.

Si definisca come scrittore con tre aggettivi.
Pigro, ricercatore, capace.

Si definisca come lettore con tre aggettivi.
Snob, integralista, affezionato.

Ci racconti un suo rituale di lettura: caminetto e tisana? Panchina in riva al mare? Plaid e divano?
Non ho un rituale stabilito, leggo quando riesco per via dei mille impegni però mi piace leggere sul treno e sui mezzi in movimento.

Avrebbe libri da consigliare per chi è interessato ad approfondire il tema che lei tratta in questo romanzo e che magari le hanno dato ispirazione?
Non mi sono ispirato a qualche libro in particolare, però sul tema o sulle atmosfere consiglierei Norwegian Wood di Haruki Murakami e Ruggine americana di Philipp Meyer.

28 aprile 2025
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Interviste// Notizie d'apertura// Ultime

« 25 Aprile, leggere per resistere
30 anni, l’età della realizzazione personale »

Iscriviti alla nostra newsletter!

altri libri

Dettaglio della copertina del libro "La voce d'oro di Mussolini" (Neri Pozza)

La voce d’oro di Mussolini, biografia della pioniera delle commentatrici radiofoniche

Dettaglio della copertina del libro "Un indovino mi disse" (Tea)

Tiziano Terzani e l’indovino che gli vietò di volare

Dettaglio della copertina del libro "Fiori sopra l'inferno" (Longanesi)

Fiori sopra l’inferno, storia di una detective sessantenne in battaglia con il mondo

Dettaglio della copertina del libro "I sette killer dello Shinkansen" (EinaudI)

Con Isaka Kōtarō il thriller diventa pulp ad alta velocità

Dettaglio della copertina del libro "Caro Pier Paolo" di Dacia Maraini (Neri Pozza)

Caro Pier Paolo, nelle lettere di Dacia ti sentiamo rivivere

  • Bluesky
  • Email
  • Facebook
  • Instagram
  • Telegram
  • Threads
  • TikTok
  • WhatsApp

COS’È LET’S BOOK   IL NOSTRO TEAM   COLLABORA CON NOI

COOKIE POLICY    NOTE LEGALI    PRIVACY POLICY

Copyright © 2023 - LETSBOOK.ORG di SONIA VACCARO e STEFANO PALLADINI - TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI