Con il suo esordio di grande complessità morale Virginia Reeves ci porta nell’America razzista degli anni Venti, dove il giovane elettricista Roscoe T. Martin viene travolto sia dal senso di colpa per le conseguenze delle proprie scelte sia dal rancore verso altri che hanno deciso per lui
di Sabrina Colombo

Un lavoro come un altro
Autrice: Virginia Reeves
Traduttrice: Francesca Pellas
Editore: Edizioni Clichy
Anno edizione: 2025
Anno prima edizione: 2016 (Usa)
Genere: Moderna e contemporanea
Pagine: 319
Consigliato a chi ama i racconti ambientati nella provincia americana, il genere storico con forti incursioni nei temi sociali.
Nell’Alabama degli inizi del secolo scorso il giovane Roscoe T. Martin – di professione elettricista – decide di modernizzare la fattoria della moglie Marie attraverso l’elettrificazione della casa e degli strumenti di produzione: da sempre affascinato da Faraday e dai suoi esperimenti, realizza delle derivazioni e sottrae energia alla compagnia elettrica di Stato, con l’aiuto del mezzadro nero Wilson. La fattoria progredisce grazie all’innovazione apportata, i primi risultati fanno ben sperare e anche la sua vita sentimentale sembra trarne vantaggio: i rapporti con la moglie, divenuta sterile dopo un parto rischioso, sembrano rifiorire e una nuova primavera sentimentale è alle porte, favorita dal benessere economico che la gestione di Roscoe sta assicurando alla piantagione.
Un fatto inaspettato irrompe in questo quadro idilliaco: il tecnico dell’Alabama Power, George Haskin, incaricato di controlli sul territorio, rimane folgorato quando si imbatte nelle linee illegali di Roscoe. Ne segue l’arresto sia del protagonista che di Wilson. Il primo verrà inviato in un penitenziario, il secondo sarà destinato ai lavori forzati in miniera.
Inizia la seconda vita di Roscoe, scandita dalle mansioni attribuitegli in carcere, prima come stalliere, poi come bibliotecario e infine come addetto ai cani con cui i vigilanti inseguono chi ha il coraggio e la sfrontatezza di tentare la fuga: un incarico, quest’ultimo, particolarmente delicato, che può scatenare invidie, malumori, accuse di favoritismo fra i soggetti ristretti.
Per Roscoe sono anni di privazioni, di rimorsi per avere coinvolto Wilson, di silenzio da parte della moglie, che mai risponderà alle sue lettere o faciliterà gli incontri con il figlio Gerald, di tentativi di ottenere la liberazione anticipata per buona condotta. Al terzo ricorso, finalmente il sistema lo riterrà sufficientemente recuperato da poter fare ritorno a casa e riprendere la vita dove l’aveva lasciata: nella fattoria di Marie, accanto a sua moglie e all’unico figlio. La situazione però è completamente cambiata e ben presto Roscoe dovrà decidere come reagire di fronte a uno scenario a lui estraneo: qualcuno ha compiuto scelte epocali che lo coinvolgono, ma rispetto alle quali non è stato consultato.
La prosa ha un incedere solenne, scandita dall’alternarsi di capitoli in cui Roscoe narra direttamente e al tempo presente la dura esperienza nel carcere a capitoli in cui, in terza persona, viene ripercorsa la sua vita fino al momento dell’arresto. L’atmosfera generale è claustrofobica, a volte allucinata: i personaggi – tutti indistintamente – sono attraversati da una sensazione di costante alienazione; il futuro è un’alternativa che non osano prefigurarsi nel timore di sprofondare ancora di più nella solitudine esistenziale che permea il loro quotidiano: ciò vale per i detenuti, i carcerieri, i funzionari, ma anche per i parenti, spesso ignari delle umiliazioni e delle violenze cui i propri cari sono sottoposti.
I temi affrontati nel romanzo sono numerosi e di notevole caratura: dalla pena di morte alla condizione carceraria negli anni Venti del secolo scorso, dalla segregazione razziale alle discriminazioni perpetrate nei confronti dei neri condannati a pene detentive. Se per i detenuti bianchi era previsto un sistema premiale, introdotto da alcune riforme miranti a favorire il reinserimento nella compagine degli onesti, lo stesso non poteva dirsi per quelli neri: la normativa dell’Alabama prevedeva l’assegnazione degli afroamericani a lavori pericolosi presso le compagnie minerarie. L’amministrazione pubblica percepiva un compenso in cambio della manodopera fornita e le tracce dei malcapitati ben presto si perdevano nei meandri della burocrazia: gli incidenti erano frequenti, spesso i morti non venivano identificati nonostante la matricola, tantomeno restituiti alle famiglie.
L’autrice – parallelamente alla critica sociale – entra nel privato del protagonista, della moglie e del figlio e descrive i traumi e le idiosincrasie che hanno portato all’allontanamento fra Marie e Roscoe, ben prima dell’incidente che determinò l’arresto. Un lavoro come un altro – pertanto – è anche un racconto sulla crisi di coppia, sulle difficoltà di comunicazione fra partner e fra genitori e figli, sul moralismo che sconfina nel perbenismo ipocrita, sulla non negoziabilità delle convinzioni etiche, neppure quando ciò significhi sacrificare la felicità propria e altrui.
Un lavoro come un altro può infine definirsi un romanzo pervaso da pessimismo e senza misericordia, in cui non c’è spazio per l’idea di perdono: non da parte di un’entità superiore (l’elemento spirituale è secondario, il cappellano una figura sbiadita) non da parte dello Stato (i cui rappresentati anche quando concedono un permesso per buona condotta partono dal presupposto che – per una quota di detenuti – si trasformerà in un’occasione per evadere), tanto meno da parte delle vittime del reato (soprattutto Marie, ma anche in minor misura Gerald, Wilson e la moglie Moa), che non sanno andare oltre il male subito per mano di Roscoe: la violazione della legge innesca un circolo vizioso da cui non c’è scampo o possibilità di completo riscatto.
Virginia Reeves vive nel Montana dove insegna scrittura e linguaggio presso l’Helena College. Un lavoro come un altro è il suo romanzo d’esordio (2016), inserito nella longlist del Man Booker Prize. Della stessa autrice Edizioni Clichy ha pubblicato anche Anatomia di un matrimonio (2023).
Il libro in una citazione
«I trasformatori elettrici che un giorno avrebbero ucciso George Haskin se ne stavano in alto su un palo, a circa dieci metri dall’estremità nord-orientale della fattoria in cui Roscoe T. Martin viveva con la famiglia. In tutto erano tre, e riducevano l’elettricità che apparteneva all’Alabama Power: da qui passava su una serie di linee lungo la recinzione, poi attraverso il bosco, e arrivava al casale e al fienile. Roscoe li costruì personalmente, i trasformatori. Posò le linee. E lo fece senza permessi.»
16 aprile 2025
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