Nella terza opera che dedica alla sua famiglia di ebrei erranti, Laura Forti restituisce piena identità alla nonna Elena, si svincola dal peso dei non detti e dà prova dell’efficacia di una scrittura vissuta intensamente e praticata con grande generosità
di Sonia Vaccaro

La figlia inutile
Autrice: Laura Forti
Editore: Guanda
Anno edizione: 2024
Genere: Memoir
Pagine: 247
Consigliato a chi è interessato a scoprire come gli eventi della Storia possano stravolgere le singole esistenze e le relazioni famigliari; a chi ama le narrazioni precise e accorate.
Se ti interessa, leggi anche
L’acrobata di Laura Forti. Giuntina, 2019.
Forse mio padre di Laura Forti. Giuntina, 2020.
Patrimonio. Una storia vera di Philip Roth. Traduzione di Vincenzo Mantovani. Einaudi, 2007. Romanzo breve sul rapporto dell’autore col padre malato, che ha accompagnato Laura Forti nel corso della stesura della Figlia inutile, in cui viene citato più volte.
Tutti avrebbero definito Elena una persona seducente ed eccentrica, d’animo forte e spirito leggero. Tutti tranne la sua nipotina Laura che, dietro a quell’aspetto imponente di solida polacca dagli occhi celesti, scorgeva un’inquietudine profonda, una solitudine immensa. D’altra parte, come poteva essere pienamente spensierata l’esistenza di chi si era dovuta confrontare più volte con abbandono, oppressione, esilio e morte? Nella famiglia di Laura simili domande non trovavano accoglienza perché i fatti del passato andavano semplicemente accettati, come se fossero stati un lascito sgradito; perché bisognava dare la precedenza alle cose pratiche; perché così era la vita. Eppure La figlia inutile, memoir di Laura Forti recentemente pubblicato da Guanda, è la prova lampante di quanto possa essere salvifico tentare di rispondere anche alle domande più dolorose.
Come già accaduto con L’acrobata e ancor di più col pluripremiato Forse mio padre, opere pubblicate da Giuntina rispettivamente nel 2019 e nel 2020, anche con quest’ultima fatica Forti porta alla luce la verità necessaria a dipanare guazzabugli emotivi, a non soccombere alla trasmissione generazionale dei traumi, a sopravvivere.
Con L’acrobata, rappresentato anche a teatro, Forti ha restituito completezza alla storia di suo cugino Pepo, al secolo José Valenzuela Levy, che nel 1986 organizzò e diresse il fallito attentato a Pinochet, capo di stato maggiore dell’esercito cileno nonché traditore del presidente Salvador Allende. Con Forse mio padre ha ridefinito la sua identità di figlia dopo aver scoperto dalla madre in fin di vita che l’uomo con cui era cresciuta non era colui con cui era stata concepita. E ora, con La figlia inutile, restituisce un corpo fisico e letterario alla defunta nonna Elena Dresner e arricchisce di un atto ulteriore la storia della sua famiglia.
Questa volta l’urgenza di indagare il passato scaturisce dalla percezione di una consonanza della propria natura di figlia traumatizzata, che non ha mai potuto conoscere il padre biologico, con il destino della nonna, anch’ella privata per anni dell’affetto famigliare poiché affidata – non si sa bene perché – alla balia cattolica che l’aveva vista venire alla luce nel 1908 a Nancy. I suoi stessi genitori, diretti in Italia con gli altri due figli, l’abbandonarono perché avrebbero voluto che fosse nata maschio per compensare la dolorosissima perdita di Israel, il primogenito? O perché era troppo vivace e ribelle? Oppure perché la situazione era così complicata che non sarebbero riusciti a prendersi cura di tre bambini? E, in tal caso, perché fu proprio lei a essere esclusa, a essere considerata inutile?
Tali domande tormentano Forti a tal punto da indurla a ricostruire l’intera vita della nonna. Inizia così a indagare dalle origini e racconta la storia della sua famiglia di esuli ebraici in fuga dai pogrom della Russia Bianca, dalle leggi razziali e dalla Shoah, ripercorrendo un intero secolo di avvenimenti che devastarono l’Europa.
La vita del bisnonno Giulio basterebbe da sola per scrivere un’epopea: nato Szaja Zamwel Drezner da padre rabbino nel 1885 a Kolbiel, a Sudest di Varsavia, ripara giovanissimo in Francia con la consorte Rojze, dopo aver vissuto il trauma del pogrom di Kishinev del 1903 ed essersi opposto allo zar; divenuto Jules Dresner, contabile in una fabbrica tessile, abbandona Elena in Francia e conduce in Italia la moglie e i due figli Pauline e Albert alla ricerca di un’integrazione migliore; qui il futuro Giulio Dreneri intraprenderà un percorso professionale faticosissimo che, da semplice addetto al portafoglio estero del Credito italiano, lo porterà a rivestire la carica di vicedirettore e, proprio quando inizierà a sentirsi davvero accettato, dovrà ricominciare tutto daccapo a causa della promulgazione delle leggi razziali; giungerà così in Cile, ultima tappa del suo sfaldamento identitario, dove prenderà il nome di Julio e resterà fino al 1971, anno della sua morte. In tutte queste vicissitudini il bisnonno di Laura cambierà più volte non solo nome, ma anche ideali e credo religioso: prima marxista e convinto sionista, poi fascista; prima ebreo, poi cattolico.
Sempre ritratto come una figura mitica dai Dresner, cui trasmise un patrimonio valoriale improntato alla sopravvivenza, a costo della perdita della memoria e dello svilimento dei sentimenti, Giulio era in realtà oggetto di una mistificazione che occultava i suoi lati meno nobili. D’altra parte, non va dimenticato che fu proprio lui – di comune accordo con la moglie – a far subire a Elena un doppio sradicamento, prima abbandonandola e poi riammettendola in famiglia, costringendola ad allontanarsi anche dalla balia che le aveva consentito di trascorrere un’infanzia felice e infliggendole così un distacco che lei visse come un rapimento, uno stupro. Questi traumi non poterono che riaffiorare con veemenza quando a Elena non fu possibile raggiungere i parenti in Cile e quando, in piena Seconda guerra mondiale, il marito Alfredo preferì rifugiarsi con i genitori, la sorella e il nipotino, separandosi da lei e dalle loro figlie Roberta e Wanda. Ecco perché Elena aveva sempre bisogno di una sorta di restituzione d’affetto dagli altri e sua figlia Roberta, mamma di Laura, si ritrovò spesso a farle da genitrice. Eppure fu proprio Roberta a decidere di non esaudire le ultime volontà di Elena, che aveva chiesto che le sue ceneri fossero disperse nel Fiume Mosella.
Con La figlia inutile Forti torna a riannodare i fili della memoria tramite la scrittura, strumento di un’indagine dolorosa e appassionata, che le consente sì di restituire pieno corpo alla nonna, ma anche di destrutturarlo, un po’ come faceva da bambina con le bambole matrioska che lei teneva sugli scaffali della libreria e come i bisnonni facevano continuamente con la loro identità. Lo destruttura con il gesto immaginario di disperderne le ceneri in acqua per chiudere un ciclo, liberarsi del peso dei non detti, riprendere a vivere pienamente.
In questo processo Forti intreccia più memorie: quella storica, che aiuta a contestualizzare i fatti con l’ausilio di documenti, articoli di giornale e fotografie; quella personale, che tramanda il bagaglio di valori ereditato da antenati costretti ad affrontare eventi sconvolgenti, taciuti e rimossi; e quella immaginaria, alimentata dal proprio patrimonio letterario, che imbocca la via della verosimiglianza facendo ricorso per ben sedici volte alla formula possibilista può darsi, collocata in apertura di frammenti di testo che vanno a riempire gli inevitabili vuoti lasciati dalla memoria storica. Ne scaturisce una narrazione tanto vera quanto imprevedibile, in cui le esistenze sono percepite come concatenazioni di situazioni provvisorie e sono plasmate dal tentativo perpetuo di sopravvivere ai tragici eventi del Novecento.
Senza mai cadere nel sentimentalismo, Forti rende la nonna più viva che mai. A lei deve il rapporto felice con l’ebraismo, la curiosità dell’avventura, l’arte di arrangiarsi, l’ansia di non appartenere a nessun luogo e la consapevolezza che molto dello stare al mondo dipende da come si affrontano le cose. L’eredità più preziosa è però un’altra consapevolezza, quella per cui l’affetto più sincero – nutrito semplicemente dal farsi compagnia – può essere donato, senza dover necessariamente ricevere qualcosa di utile in cambio.
Forti, che negli anni si è confrontata con le più varie forme della narrazione – dalla drammaturgia all’autobiografia, dal giornalismo alla traduzione – padroneggia le strategie del testo e le declina in soluzioni strutturali e stilistiche che agevolano il lettore, accompagnandolo non solo alla scoperta del profondo legame che la univa alla nonna, ma anche del più sorprendente disvelamento che si palesa a chiunque decida di intraprendere con coraggio, determinazione e generosità lo sfidante viaggio della scrittura: la verità necessaria, quella che dona libertà.
Il libro in una citazione
«A quel punto sarebbe dovuto arrivare un maschio, a restituire finalmente l’erede scomparso, e risarcire la perdita e ricucire la ferita. Invece nacque Elena. Un’altra femmina. Una figlia sbagliata, nel momento sbagliato. Una figlia inutile.»
11 luglio 2024
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