di Sabrina Colombo
Villa del seminario
Autore: Sacha Naspini
Editore: edizioni e/o
Anno edizione: 2023
Genere: Moderna e contemporanea
Pagine: 202
Consigliato a chi vuole riflettere su una pagina tragica della storia italiana, a chi ama i racconti sulla Resistenza.
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Le case del malcontento di Sacha Naspini. Edizioni e/o, 2018.
Altro romanzo ambientato nel medesimo borgo semi-immaginario.
Il cinquantenne René, detto Settebello, abita nel piccolo borgo di Le Case, nel cuore della Maremma. Un paesino sperduto, schiacciato dalla lussureggiante bellezza di borghi vicini come Massa Marittima o Pitigliano.
Vittima di un incidente al tornio, che gli ha portato via tre dita della mano, René si guadagna da vivere risuolando scarpe e stivali. Mestiere decisamente utile tra il 1944 e il 1945, quando – nell’attesa dell’arrivo delle forze alleate, l’eco delle cui gesta è sempre più potente dopo i fatti di Cassino – c’è talmente tanta povertà che l’acquisto di un paio nuovo di calzature è un evento impensabile.
Quella di René è una vita sospesa. L’importante è abbozzare, evitare di esporsi sia con le milizie fasciste sia con i militari della Wehrmacht. Guai a manifestare un qualunque atteggiamento minimamente sovversivo: il più piccolo accenno alla Resistenza che si sta svolgendo nella boscaglia circostante, il più banale ammiccamento o apprezzamento per chi sta organizzando la liberazione e attende di avere man forte dall’esercito americano, espone a guai grossi: un pestaggio nei migliori dei casi, se non la perdita della vita a mezzo fucilazione.
Sì, perché esercito regolare e ufficiali di complemento nazisti si stanno facendo nervosi, sentono aria di cambiamento e temono di dover pagare un prezzo caro per portare a casa la pelle. I gerarchi (chi a diversi livelli ha sostenuto il regime) sanno che il tempo stringe e che la miglior soluzione è distruggere le prove dei misfatti compiuti per poi spogliarsi della divisa e gettarsi nella mischia, sperando di essere scambiati per partigiani dell’ultima ora.
Tanto più alto è il rischio di vendette trasversali e omicidi incrociati laddove si consideri che a Le Case il vescovo ha concesso una residenza di proprietà della curia locale ai nazisti, fornendo anche la manodopera delle suore. Dietro regolare versamento di un canone di locazione, la magione ospita famiglie di ebrei e prigionieri politici, in transito verso i treni che dalle stazioni di smistamento li condurranno ai campi di sterminio.
Quando Anna, che ha visto il figlio partigiano trucidato dai tedeschi, si dà alla macchia unendosi al movimento clandestino, René scioglie gli indugi e – per amore di quest’ultima – sfodera un coraggio insospettabile, impegnandosi in prima persona nella lotta di liberazione.
Il suo destino s’incrocia con quello degli abitanti della “villa del seminario”, prima da artigiano assoldato dai fascisti per rattoppare stivali e scarponi delle truppe, poi come recluso, quando diventa chiaro il suo ruolo di fiancheggiatore dei resistenti.
Nel frattempo, strani accadimenti sconvolgono la villa: tra gli internati – alcuni dei quali si sono presentati volontariamente credendo di salvarsi sotto l’ala della curia vescovile – si diffonde una misteriosa isteria: urla e schiamazzi da indemoniati sconvolgono le notti e pongono i carcerieri nella condizione di temere che la mano di Dio stia per vendicarsi delle infamie compiute su persone inermi.
Villa del seminario, romanzo di Sacha Naspini scritto in terza persona, racconta una pagina di storia locale tristemente vera: il vescovo monsignor Paolo Galeazzi, in effetti, concesse ai nazisti uno stabile a Roccatederighi per allocare prigionieri in attesa dell’invio ad Auschwitz e mai – a oggi – è stato chiarito il suo ruolo, se fu un estremo tentativo di salvare gli arrestati da ulteriori e ben più pericolosi rastrellamenti, o se fu invece un ignobile mercimonio finalizzato a mettere a reddito il patrimonio immobiliare del vescovado. Di certo c’è che – a conflitto concluso – le autorità ecclesiastiche fecero richiesta allo Stato italiano del pagamento del canone di locazione convenuto – e mai corrisposto – nei concitati mesi che precedettero la liberazione.
I personaggi sono descritti con pennellate sicure, scarne, lucide e brutali, tratti certi che permettono al lettore di cogliere le sfumature, i pensieri, le paure degli attori del dramma:
“Con i compaesani se lo diceva con gli occhi: coraggio. Più di quello non potevano fare, c’era il rischio di beccare un paio di nazisti rabbiosi che non guardavano in faccia a nessuno fregandosene di dare una manata a una madre col piccoletto e il marito lì accanto, tanto per provocare. Si marciava a passo svelto. San Bastiano suonava a morto e neanche facevano la processione, quelli della famiglia portavano via la bara, scavavano la fossa e tornavano a casa di corsa, scortati.”
(Pag. 65)
I dialoghi iperrealisti – contrapposti alla narrazione in forma indiretta in cui non si abusa di aggettivi – ci catapultano nel gorgo di quel folle periodo: imperversava la guerra civile e donne e uomini appartenenti al medesimo popolo venivano posti di fronte a scelte di campo epocali, che richiedevano sacrificio personale in nome di una superiore causa comune.
“Non me lo tolgo dalla testa: un campo di concentramento a Le Case. Deve per forza voler dire qualcosa”.
Rispose lo Zoni, senza neanche voltarsi: “Il brutto chiama il brutto. Di certo non vengono a costruire qui una sala da ballo”.
“Per di più sulla terra della chiesa” fece il Nencioni, e sembrava sinceramente sconvolto. “Ancora non me ne capacito”.
“C’è un disegno per tutto.” Mormorò il Maso. Poche parole, ma fecero presa.
Farfallina diede un colpetto di nocca sul tavolo. “Non cominciamo con le fantasie da prete. Del seminario non me n’è mai fregato un’acca, ma trasformarlo in un recinto dove metterci le persone è un affronto. Ce lo piazzano qui sotto il naso, come se già sapessero di che pasta siamo: nessuno muoverà un dito. Io questa colpa non la voglio. Giuro che non ci dormo la notte. Ah, se avessi vent’anni di meno …”
(Pag. 41-42)
Il racconto della fame che uccide più delle armi, dei più deboli che si spengono per inedia, della paura che mette alla prova l’umana solidarietà, dello spirito di conservazione che allontana qualunque desiderio di eroismo, della gioia della liberazione che deflagra fra paesani e sfollati, fanno di quest’opera una valida testimonianza letteraria – a tratti ammantata di poesia – che non lascia indifferenti e dopo oltre settant’anni ancora accende di indignazione il cuore di chi – ieri come oggi – conosce il valore della libertà.
Il libro in una citazione
«In questo libro la storia è guardata da un ciabattino. È stata una scelta precisa, principalmente nel rispetto di uomini, donne e bambini che nel campo del vescovo ci sono stati davvero. La tentazione di accendere la luce sui particolari di una determinata famiglia c’è stata, ma raccontare un avvenimento significava chiuderne altri cento e più. Alla fine ho preso dalla cassetta degli attrezzi un altro strumento: evocare. Creare la mia avventura – vicina a molte – nel tentativo di dare una risposta a questa domanda: cosa succede se da un giorno all’altro piazzano un campo d’internamento accanto a casa tua?»
Tratto dalla Nota finale dell’autore.
25 aprile 2023
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