di Sonia Vaccaro

Il diavolo in blu
Autore: Walter Mosley
Editore: 21lettere
Traduttore: Bruno Amato
Anno edizione: 2021
Anno prima edizione: 1990 (Usa)
Genere: Gialli & Noir
Pagine: 263
Consigliato agli amanti dei noir che vanno oltre la violenza fine a se stessa, affrontando questioni sociali complesse e raccontando storie di personaggi con spessore etico.
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a cura di Stefano Palladini
Il regista e sceneggiatore statunitense Carl Franklin non deve aver creduto ai propri occhi quando, negli anni Novanta del secolo scorso, s’imbatté in Devil in a Blue Dress, il primo degli oltre sessanta libri che il suo connazionale Walter Mosley avrebbe scritto. Tra le mani Franklin aveva un noir che sembrava una sorta di film su carta e, benché l’adattamento cinematografico che avrebbe portato nelle sale nel 1995 si sarebbe discostato non poco dalla trama originale, l’impronta di Mosley sarebbe rimasta un tratto distintivo. D’altra parte, leggendo anche solo le prime pagine del Diavolo in blu, ancora oggi ritenuto il capolavoro dello scrittore afroamericano, si ha la netta impressione di guardare la realtà attraverso l’obiettivo di una cinepresa.
Ripubblicato nel 2021 dalla casa editrice modenese 21lettere nella traduzione di Bruno Amato, che già firmò le edizioni Sonzogno del 1991 ed Einaudi del 2011, Il diavolo in blu è il primo di quindici episodi della fortunata serie del detective Ezekiel (Easy) Rawlins, che valse a Mosley lo Shamus Award e inaugurò la sua prolifica carriera, premiata nel 2020 con il National Book Award, attribuito proprio allora per la prima volta a uno scrittore afroamericano.
È afroamericano anche Easy, investigatore improvvisato che nella Los Angeles del secondo dopoguerra viene assoldato dal faccendiere DeWitt Albright, uomo bianco di pelle e vestiti, con gli occhi del colore delle uova di pettirosso, per rintracciare Daphne Monet, ventunenne mulatta che è entrata nel cuore del politico Todd Carter ed è al centro di tutta l’intricata vicenda.
Nel 1948 Easy è un reduce che ha combattuto in Normandia e nelle Ardenne al seguito del “generale d’acciaio” George Smith Patton. Emigrato da Houston a Los Angeles dopo un tragico evento in cui è stato trascinato dal (fedele) amico Raymond (Mouse) Alexander, Easy riesce a trovare lavoro alla Champion Aircraft e a comprare una casa con un giardinetto coltivato a fiori e alberi da frutto, che per lui è la prova di come un nero possa valere tanto quanto un bianco. C’è un problema, però: Easy non è tipo da perdere la dignità davanti a Benito, il suo capo italiano e schiavista, e così viene licenziato. Quando la banca batte cassa, su consiglio del (presunto) amico Joppy, Easy decide di accettare la proposta di Albright, che lo rimpingua sulla fiducia con cento dollari, tutt’altro che bruscolini per l’epoca.
Iniziarono così – ricorda a distanza di anni Easy – i giorni che fecero di lui un detective. Per raccontarceli, Mosley ricorre ai caratteristici topoi dell’hard boiled, sottogenere poliziesco-investigativo reso noto da Dashiell Hammet e perfezionato da Raymond Chandler.
Easy – non a caso giovane, solo e al verde – si ritrova a indagare in locali notturni di dubbia reputazione, in cui vengono serviti alcolici senza licenza, postacci spesso situati a Watts, quartiere afroamericano in cui lo stesso Mosley (classe 1952) è cresciuto e che, nell’estate del 1965, salì agli onori della cronaca poiché fu luogo di una delle più grandi sommosse a sfondo razziale.
Daphne è una dark lady bionda, tanto bella quanto diabolica, con un’infanzia traumatica alle spalle, intenta a sottrarsi a un destino crudele che però sembra non volerle dare tregua.
Mentre il crimine serpeggia, il denaro sporco abbonda, gli assassini si moltiplicano, la corruzione della polizia dilaga e violenza e sesso esplodono repentinamente, il lettore non può che restare attonito e ipnotizzato.
Anche in questa storia fortemente americana, ma allo stesso tempo rappresentativa di molte parti del mondo, Mosley indaga dimensioni interiori e questioni sociali complesse attraverso lo sguardo del protagonista, collocato in un racconto dal ritmo sempre serrato, reso ancor più vivido da dialoghi intrisi di arguzia. Difatti Easy osserva attentamente chi gli sta vicino, ne fa descrizioni fisiche e comportamentali accurate, ne ricorda il passato e ce ne fa ascoltare direttamente le parole. Ne emergono personaggi estremamente credibili perché imperfetti e umani.
Easy stesso, rimasto a corto di denaro ma non di orgoglio, e sopraffatto dal timore di non avere un posto nella società, accetta di scendere a compromessi. Nel farlo, però, si rivela dilaniato da dubbi e insicurezze. La sua forza sta in quella voce della coscienza che ha sentito per la prima volta quando era in Normandia e che lo porta sempre a chiedersi se stia agendo per il meglio, brillante escamotage narrativo che gli conferisce uno spessore etico piuttosto raro per personaggi detective alle prime armi.
Le questioni sociali complesse sono principalmente razziali. Quello della distanza tra bianchi e neri è un tema molto caro a Mosley, che riesce ad affrontarlo senza retorica né forzature pedagogiche, preservando la godibilità della storia. Quando Easy posa lo sguardo sulla Los Angeles in cui vive, che lo ha accolto in modo diverso da quel che pensava, sa che deve accettarne le consuetudini: per esempio quella per cui la polizia preferisce trovare un colpevole con la pelle nera piuttosto che il vero responsabile di un reato, ancor di più nel caso dell’assassinio di un uomo con la pelle bianca; quella per cui sul posto di lavoro un nero non merita di essere trattato come un bianco benché assolva pienamente al proprio dovere; quella per cui un nero senza una casa di proprietà viene considerato alla stregua di un pezzente con la mano tesa; e, non ultima, quella per cui i neri restano neri qualsiasi cosa facciano e qualsiasi sentimento provino.
Le questioni razziali messe a tema nel Diavolo in blu sono endemiche, e prova ne è il fatto che continuano a essere attuali nonostante sia passato più di un trentennio dalla prima edizione statunitense.
Riesce a rendere bene l’endemicità del razzismo anche il film di Franklin, in cui Easy è un giovane e talentuoso Denzel Washington; Daphne ha i capelli scuri e il volto enigmatico di Jennifer Beals e Mouse non poteva trovare miglior interprete di Don Cheadle.
Benché sia fedele nella resa dell’ambientazione – fotografia, costumi, scenografie e colonna sonora tratteggiano un ottimo affresco dell’epoca – e ancor di più in quella di molti dialoghi, perfettamente aderenti al testo di Mosley, il lungometraggio presenta una diversità di dettagli tale da incidere strutturalmente sulla storia. Franklin toglie, per ovvie necessità di adattamento, e aggiunge, per conferire spettacolarità, riuscendo però a non intaccare i temi di fondo.
Oltre a non essere bionda, Daphne indossa abiti azzurri – ma traghettare i colori da una cultura all’altra non è mai semplice – ed è sicuramente meno diabolica di come l’aveva immaginata Mosley, a differenza del ben più meschino e suo tanto amato Carter. A vantaggio dell’azione, Franklin rinuncia all’analisi psicologica approfondita che conferisce maggiore rotondità ai personaggi originali.
A chi legge il libro e guarda il film resta l’impressione di essersi immerso in due versioni della medesima vicenda, che iniziano e terminano allo stesso modo, dipanandosi però su intrecci diversi. Resta anche il desiderio di sapere cosa ne sarà di Easy. Di certo se ne sono resi conto alla casa editrice 21lettere, che recentemente ha ripubblicato anche il terzo volume della serie, La farfalla bianca, nella traduzione di Mario Biondi. Ma questa è un’altra storia, anch’essa tutta da leggere.
Il libro in una citazione
«“L’ho sentito anch’io”. Joppy gettò lo straccio sotto il banco e tirò fuori un bicchiere basso. Mentre mi versava il whiskey, disse “Non volevo che succedesse tutto questo, Easy. Cercavo solo di aiutare te e quella ragazza”.
“Quella ragazza è il diavolo, amico”, replicai. “Trasuda perfidia da tutti i pori”.»
21 settembre 2022
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