di Sonia Vaccaro
La Scimmia che vinse il Pulitzer. Personaggi, avventure e (buone) notizie dal futuro dell’informazione
Autori: Nicola Bruno, Raffaele Mastrolonardo
Editore: Bruno Mondadori
Anno edizione: 2011
Genere: Media e comunicazione
Pagine: 192
Consigliato a chi vuole iniziare a comprendere le dinamiche del mondo dell’informazione e ad acquisire consapevolezza critica nel distinguere le diverse fonti del giornalismo digitale.
Sei a Evanston, sobborgo della periferia nord di Chicago, e varchi la soglia dell’Intelligent Information Lab della Northwestern University. Attraversi sale server e laboratori con le pareti coperte da schermi al plasma su cui scorrono stringhe di codice. A un certo punto ti presentano lei, la Scimmia. Gli amici la chiamano Stats Monkey e anche loro stentano a credere ai propri occhi, eppure è davvero così: in meno di un secondo Stats Monkey riesce a scrivere in un inglese impeccabile una notizia – corredandola di titolo, sommario, immagini – e in una settimana arriva addirittura a produrre 150mila articoli. È ferratissima sul baseball, ma se la cava bene con ogni genere di statistiche. Commette meno errori di un essere umano, non può prendersi il vaiolo e non ha neppure le sembianze di un primate: è un software.
Se credi di aver appena letto il riassunto delle prime pagine di un romanzo di fantascienza, ti stai sbagliando. Questo è vero e proprio passato: non quello di cui si narrerebbe in un romanzo storico, ma quello vissuto e documentato da Nicola Bruno e Raffaele Mastrolonardo in La Scimmia che vinse il Pulitzer, saggio pubblicato in prima edizione nel lontano 2011 ma ancora oggi di significativo interesse perché capace di cogliere i momenti di transizione che hanno caratterizzato il sistema dell’informazione dopo il primo embrionale decennio di web. Già allora si vedevano gli effetti devastanti della rivoluzione digitale, che aveva contribuito a declassare il valore della notizia a quello di commodity e a far crollare le entrate pubblicitarie comportando drastici tagli di personale e un netto peggioramento della qualità dell’informazione.
L’analisi di Bruno e Mastrolonardo non vuole però essere disfattista. Più che dar credito ai detrattori della rivoluzione digitale, spesso votati all’autocommiserazione, gli autori – parafrasando una nota dichiarazione che lo scrittore statunitense Mark Twain rilasciò dopo aver saputo della propria presupposta dipartita – hanno pensato che la morte del giornalismo fosse stata “ampiamente esagerata” e hanno preferito investire le proprie risorse per capire come il mondo dell’informazione potesse cambiar pelle.
Tra il 2009 e il 2010 hanno intrapreso un viaggio che li ha portati a Chicago, New York, Washington, Varsavia, Amsterdam, Bruxelles e altre capitali europee per incontrare e intervistare veri e propri innovatori, coloro che seppero tracciare il solco da percorrere per far sopravvivere il giornalismo di qualità nell’era digitale. Si sono così resi conto di avere a che fare con personalità accomunate da una predisposizione verso il presente – ovvero dall’inclinazione a sfruttare al meglio gli strumenti che il momento storico metteva loro a disposizione per attuare la ricerca e la diffusione della verità – e dalla capacità di interpretare in modo personale un valore forte del giornalismo del secolo scorso, traghettandolo nell’attuale millennio.
Gli autori individuano questi valori forti in otto parole chiave: precisione, velocità, intelligenza, partecipazione, trasparenza, libertà, bellezza e cambiamento. A ben rifletterci, il modo di intenderle segna ancora oggi il discrimine tra buono e cattivo giornalismo, digitale o meno.
Secondo i suoi ideatori, gli informatici Kristian Hammond e Larry Birnbaum, la Scimmia – grande esempio di intelligenza (artificiale) – avrebbe potuto facilitare il lavoro dei giornalisti alle prese con le statistiche e, anche per questo, ambire al Pulitzer entro il 2030.
A conquistare davvero il Pulitzer per il miglior giornalismo nazionale nel 2009 è stato però PolitiFact, sito web di fact checking fondato nel 2007 da Bill Adair e indicato dagli autori come miglior interprete della precisione (usata contro i potenti).
Quindici anni fa la velocità era inseguita via twitter dall’allora ventenne olandese Michael van Poppel, che riuscì a entrare in possesso del video in cui Osama bin Laden affermava che gli Stati Uniti erano vulnerabili.
Della partecipazione diede grande prova l’attivista keniana Ory Okolloh, che fondò la piattaforma Ushaidi e riuscì così, basandosi su un giornalismo praticato dal basso, a documentare meglio dei grandi colossi dell’informazione i disordini scatenatisi nel suo Paese a seguito dei brogli elettorali del 2007.
Nel 2010 profeta della trasparenza non poteva che essere definito Julian Assange, intervistato da Bruno e Mastrolonardo quando ancora il suo WikiLeaks non aveva messo a segno gli scoop più clamorosi. Con lui collaborò l’islandese Birgitta Jónsdóttir per incentivare la libertà (di espressione) mediante l’Iceland Modern Initiative, risoluzione in cui confluirono le più avanzate norme europee e statunitensi, che venne elaborata proprio quando in Italia l’opinione pubblica si accapigliava sulla cosiddetta “legge bavaglio” contro le intercettazioni.
La bellezza dell’informazione su carta trovò il suo fautore in Jacek Utko, illustre designer di quotidiani che contribuì a salvare dalla crisi diverse testate di fama internazionale appellandosi sì al senso estetico ma anche alla percezione del lettore e all’integrazione dell’art direction nel lavoro di redazione.
Promotori del cambiamento che difatti porterà al data journalism sono tre giovani: Adrian Holovaty, sviluppatore del linguaggio di programmazione Django, usato per la creazione di App; Brian Boyer, uno dei primi journo-hacker d’America che ha incrementato l’impatto del giornalismo investigativo del Chicago Tribune e non solo; Aron Pilhofer, fondatore della divisione Interactive New Technologies del New York Times, tra le prime testate a comprendere l’importanza (e la remuneratività) del mettere i dati al servizio dei cittadini.
Bruno e Mastrolonardo hanno il merito di aver impresso su carta gli inizi della lenta e faticosa svolta del giornalismo tradizionale verso il digitale, dando voce a veri e propri visionari che – incoraggiati da motivazioni diverse – per primi si resero conto della necessità di voltare pagina. Gli autori ne dipingono un ritratto esaustivo, ma non celebrativo, instillando talvolta qualche dubbio sulla piena condivisibilità delle loro azioni.
A distanza di anni queste pagine lasciano il desiderio di approfondimento, alimentato anche dalla sezione dei retroscena che, in coda a ogni capitolo, raccoglie note e aneddoti.
Se è vero che, come sosteneva Italo Calvino, “un classico non ha mai finito di dire quel che ha da dire”, anche un saggio ben congegnato non finisce mai di farlo. Non è di certo un caso se La Scimmia che vinse il Pulitzer rientra ancora nelle indicazioni bibliografiche dei corsi universitari di giornalismo e continua a meritare un posto nella libreria di cittadini del mondo che vogliono familiarizzare con le dinamiche dell’informazione digitale, di cui ormai la nostra quotidianità è pervasa.
Il libro in una citazione
«Anche le utopie, talvolta, trovano un luogo dove materializzarsi. Accade raramente, ma accade. Compiono tragitti nello spazio, svolazzano nel tempo e poi precipitano nella realtà grazie all’incontro con la persona giusta.»
Tratto da Libertà
8 settembre 2022
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