di Sonia Vaccaro
Via da qui
Autrice: Alessandra Sarchi
Editore: minimum fax
Anno edizione: 2022
Genere: Moderna e contemporanea, Racconti
Pagine: 140
Consigliato a chi cerca il coraggio per dare una svolta alla propria vita.
A Firenze, Monica deve affrontare la tragica scomparsa della sua amata Evelyn. Dopo aver scoperto il tradimento del marito, Ines deve decidere se ritornare definitivamente in Italia da New York. A Bologna, Melissa sta pensando cosa fare della vita che ha scoperto di avere in grembo. A Santa Ana, in California, Annamaria trova una busta nel cassetto della scrivania del consorte. Su un’altana di Venezia, Marta conclude una giornata con amici di vecchia data.
Come protagoniste dei cinque racconti inediti di Via da qui Alessandra Sarchi ha scelto donne tra i trenta e i quarant’anni che, avendo superato la prima fase della vita, si ritrovano a dover prendere decisioni che incideranno pesantemente sul loro futuro.
Eventi che si verificano improvvisamente – un incidente stradale, la fine di una relazione, una gravidanza inaspettata, la perdita di un lavoro – o che si dispiegano gradualmente – l’accettazione di una vita di compromesso, il trascinarsi agonizzante di un rapporto, il desiderio di maternità, la disillusione del sogno americano – provocano tremende lacerazioni. Solo subitanee epifanie, illuminanti rivelazioni che avvengono in situazioni quotidiane per poi essere inevitabilmente riassorbite nel fluire dell’esistenza, possono iniziare a rimarginare le ferite.
Sarchi fotografa le sue protagoniste nell’istante esatto in cui mutano, quando – in preda a un tumultuoso fermento – prendono coscienza che non sarà mai più ciò che è stato, come accade a Monica mentre scrosta con un’unghia la vernice dall’infisso che avrebbe dovuto ridipingere con Evelyn.
Dal disorientamento scaturisce il desiderio di fuga verso una destinazione incerta o quello di ritorno alle proprie origini, in ogni caso di raggiungimento o abbandono di luoghi che sono più che altro scrigni di vissuto. Che appartengano al passato, al presente o a entrambi, le case di Via da qui trattengono emozioni, spesso riflesse nei giochi di luce che illuminano le loro stanze agli occhi di chi le attraversa. Ci sono luoghi da dove si può guardare il mondo stando al sicuro, come la tana di Monica ed Evelyn; ritrovati, come il paesello sulla riva del Po, dove Ines viveva prima di emigrare negli Stati Uniti; oppure in ristrutturazione, come il palazzo nobiliare di cui Melissa e Filippo occupano abusivamente il sottotetto. Sono però anche e soprattutto scene di transizione e, se richiedono manutenzione, questa arriva inevitabilmente a coinvolgere anche le fondamenta della propria esistenza.
La transizione è tutt’altro che scontata: può avvenire da un qui alla ricerca di un altrove, inteso anche come tempo necessario per ritrovare se stessi; da una lingua all’altra, ovvero da un’identità a un’altra; addirittura da un corpo all’altro, se ci sono di mezzo organi da espiantare.
Che coincida con uno o pochi giorni, il tempo in Via da qui è sempre un momento di frattura.
La precisione della lingua diventa elemento narrativo e crea effetti di straniamento: c’è chi deve recuperare le parole assieme alle proprie radici – memorabile l’episodio in cui Ines cerca di riappropriarsi del termine cadrega, per lei ormai diventato armchair – e c’è anche chi non è mai riuscito a sostituirle veramente con quelle di un altro idioma – efficace il parallelismo tra Annamaria, che non si sente ancora integrata nonostante i due anni già trascorsi a Santa Ana, e suo marito Giovanni, che si è linguisticamente mimetizzato e le parla in inglese anche durante i momenti d’intimità. In ogni caso, la maggiore o minore competenza linguistica diventa una lente attraverso cui i personaggi possono osservarsi e riflettere sulla propria storia.
Il corpo è quello che ancora può donare vita per volere di chi, pur avendolo messo al mondo, in realtà non ne ha compreso fino in fondo la natura. L’esclusione di Monica dalla decisione di quel che sarà del cuore della sua Evelyn la rendono esempio paradigmatico della solitudine in cui viene a trovarsi ancora oggi chi non si vede riconoscere la legittimità del proprio amore, e dunque del proprio sé, sia da parte della famiglia sia da parte della società. Una società che impone regole e ritmi, in cui è facile non ritrovarsi, e che talvolta induce a recitare una parte, come accade ad Annamaria, o spinge a rompere a proprio modo con il sistema, come fanno Melissa e Filippo.
Con una precisione stilistica molto raffinata, ottenuta esaltando l’essenzialità della parola, Sarchi fa emergere i suoi personaggi da frammenti descrittivi perfettamente innestati nel racconto, che ne rivelano lo sguardo sulle cose e rivestono perciò un ruolo non indifferente per la loro caratterizzazione. A definire i personaggi non sono tanto le parole che questi pronunciano bensì i loro gesti, come il lungo abbraccio di grande intensità affettiva che il papà di Evelyn dà a Monica in ospedale, o i loro non gesti, come l’immobilità ostile della madre di Evelyn che si ritrova con Monica nella loro camera da letto animando una scena dalla dirompente carica emotiva. Sui dialoghi prevalgono i monologhi interiori e solo in un caso, quello dell’Argine, la narrazione è affidata a una pluralità di voci.
Sui suoi personaggi disincantati Sarchi posa uno sguardo compassionevole e allo stesso tempo penetrante, che non consente di dimenticare ciò che nella vita è ormai diventato irreversibile. Però, dopo averne raccontato il momento di crisi e l’attimo epifanico, sceglie di affidare alla nostra immaginazione il loro futuro.
I racconti di Via da qui tradiscono un unitario progetto di scrittura ottimamente concepito, con intrecci tematici ben evidenti seppur non esplicitamente dichiarati. Leggere un racconto è come ammirare un’opera d’arte bizantina, che rappresenta frontalmente un tema; leggerli tutti è come sorprendersi davanti alle mille sfaccettature del medesimo, che ben interpreterebbe un esponente del cubismo. Il quadro si mette totalmente a fuoco nell’ultimo componimento, Fondamenta della Misericordia, affresco corale in cui si scopre come la vita possa veramente fluire solo quando si costruiscono legami indissolubili, quelli fondati sul vero amore e la sincera fratellanza. Solide ancore di salvezza, che ci ricordano l’importanza di provare compassione anche verso noi stessi.
Il libro in una citazione
«Mentre chiude l’ultimo cassetto, svuotato della sua biancheria, le viene in mente un verso di Orazio, sopravvissuto tra una serie di esametri imparati al liceo: caelum mutant sed non animum, detto di quelli che invano cercano di sfuggire alle proprie sofferenze, cambiando posto. Ma lei non vuole cambiare posto.»
Tratto da Cherry Street
30 maggio 2022
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