di Sabrina Colombo
Ragazza, donna, altro
Autrice: Bernardine Evaristo
Traduttrice: Martina Testa
Editore: Edizioni Sur
Anno edizione: 2020
Anno prima edizione: 2019 (Regno Unito)
Genere: Moderna e contemporanea
Pagine: 523
Consigliato a chi è sensibile al tema del superamento degli stereotipi di genere, e anche a chi non si è mai interrogato sull’argomento poiché i tempi sono maturi per iniziare a discuterne seriamente a ogni livello della società civile; agli insegnanti, perché lo propongano a scuola nei percorsi di educazione civica; ai genitori, per imparare a decodificare la grammatica dei sentimenti delle nuove generazioni; ai più giovani, perché guardino con rispetto e gratitudine alle fatiche di chi li ha preceduti sul sentiero della vita; a chi non ha ben chiaro che la multietnicità è una risorsa preziosa. A tutti.
Londra, tempo presente. Amma Bonsu è una regista nera, orgogliosamente omosessuale e paladina dei diritti delle minoranze che – dopo anni spesi a organizzare spettacoli di nicchia e di scarso successo – riesce finalmente ad allestire presso il prestigioso National Theatre, il tempio del teatro nella capitale britannica, il suo testo L’ultima amazzone del Dahomey, ispirato alle gesta di un gruppo di guerriere del Benin, storicamente documentato.
Amma vive la sessualità in modo disinibito. Figlia di quel movimento femminista di liberazione che ha aperto la strada alle rivendicazioni dei giorni nostri, è anche madre di Yazz – tenera e forte, bizzosa come tutti gli adolescenti e desiderosa di realizzarsi nel lavoro. Amma non si è mai fatta scrupolo di amare liberamente, passando con spregiudicatezza da una relazione all’altra e decidendo di sublimare il desiderio di genitorialità ricorrendo al seme di un amico gay, Roland, cattedratico, scrittore e opinionista.
La sera del debutto – che sarà un trionfo di pubblico e critica – è l’occasione per rivedere molti amici e conoscenti che hanno gravitato – direttamente o indirettamente – attorno ad Amma. Il palcoscenico della vita e quello teatrale si sovrappongono: il foyer diventa il crocevia di tante esistenze e da questo spunto nasce un carosello di racconti di dodici donne, afroamericane, bianche, lesbiche, bisessuali, eterosessuali, transessuali o fieramente intenzionate a non essere classificate secondo uno stereotipo di genere, tutte accomunate da un vissuto complesso.
C’è un triplice livello di difficoltà che queste protagoniste hanno affrontato: il trauma dell’emigrazione dai Paesi poveri, Africa o Caraibi per lo più; l’adattamento allo stile di vita europeo che ha fatto seguito allo strappo culturale dalle tradizioni e costumi dei luoghi d’origine; il dilemma interiore, sfociato in aperta protesta, quando si è trattato di scegliere fra essere coerenti con il proprio orientamento sessuale o essere accettate per assimilazione, rinunciando a una parte di sé.
Ogni capitolo è dedicato a una protagonista di cui si ripercorrono le traversie famigliari, professionali, sentimentali; viene posto l’accento sul contesto sociale – il tatcherismo, la crisi economica degli anni Novanta, le lotte sindacali, la Brexit – e sul contrasto tra gli ambienti urbani e suburbani, moderatamente accoglienti in ragione del gran numero di migranti in transito, e le aree rurali, particolarmente ostiche ad accogliere lo straniero e più in generale ciò che è percepito come diverso o anche semplicemente inusuale.
Bernardine Evaristo – autrice anglo-nigeriana con alle spalle una cospicua produzione di testi teatrali e di romanzi, da sempre attivista impegnata nella valorizzazione degli artisti di colore – mette a nudo le “sue” donne: le fa parlare a ruota libera, senza filtri, grazie a un flusso di coscienza ininterrotto, a tratti intimo e dolente, sempre iperrealista – in cui sapientemente alterna la prima e la terza persona singolare.
La tecnica narrativa è sperimentale e anticonvenzionale, si passa da un racconto all’altro senza soluzione di continuità. L’autrice suddivide i capitoli in paragrafi brevi e omette buona parte della punteggiatura, in tal modo conferendo un andamento poetico all’avvicendarsi delle testimonianze: le pause sono scandite dalla scelta di andare a capo senza punti, virgole, maiuscole, virgolette per il discorso diretto, lasciando ai lettori, che si affacciano nell’universo delle protagoniste, il compito di interiorizzare il ritmo della narrazione. Quest’ultima a volte si fa convulsa – quando il ricordo corre a momenti tragici o dolorosi (dal capitolo “Carole”):
“Carole sentì altre voci
[…]
poi si ritrovò con la schiena a terra, erba umida sotto la schiena nuda, le braccia e le gambe, aveva sonno, avrebbe voluto farsi giusto cinque minutini di sonno, le si chiudevano gli occhi, e quando li riaprì non vedeva niente, l’avevano bendata, le tenevano le braccia ferme sopra la testa
come le erano spariti di dosso i vestiti?
poi
il
suo
corpo
non
fu
più
suo
diventò
una
cosa
loro
e lei, che amava i numeri, disimparò a contare…”
Altre volte si fa più lenta, lirica e ispirata, quando l’attenzione si sposta sul lavorio interiore cui ogni personaggio, dalla semplice contadina alla donna in carriera, si sta sottoponendo per dare un senso al proprio percorso (dal capitolo “Bummi”):
“Bummi si ricorda di quando sua mamma fece fagotto e fuggì da Opolo, sul Delta del Niger
dopo che il padre di Bummi, Moses, era saltato in aria mentre raffinava clandestinamente del combustibile
diesel
riscaldare barili di petrolio greggio in mezzo alle paludi era pericoloso se uno si metteva troppo vicino alle fiamme in quegli stabilimenti fatti in casa…
[…]
quando il padre di Bummi morì, del pezzo di terra che possedeva, dove coltivavano cassava e ignami, si impadronirono i suoi parenti, sotto gli occhi di tutti
eri la moglie di fatto, non la moglie legale, urlarono a Iyatunde, calando in massa sulla sua capanna dopo il funerale
sciò, sciò, adesso te ne vai via, qui è tutto nostro, non ti vogliamo più vedere, qua non c’entri più niente!
Bummi ricorda la lunga camminata con mamma nella foresta fino a casa dei nonni
portando tutti i loro averi in due ceste sulla testa.”
Ragazza, donna, altro – vincitore del prestigioso Man Booker Prize nel 2019 – è un’opera audace nello stile ma soprattutto nel messaggio; non vuole essere un pamphlet che chiama alla crociata femminista, mira piuttosto ad affermare la necessità del rispetto e dell’accettazione delle differenze. Non è un elogio della diversità fine a se stesso quanto un invito alla presa di coscienza della preziosa unicità di ciascun membro della famiglia umana. È un romanzo politico nel senso più alto e nobile del termine. Nel finale il filo dei dodici racconti si chiude con un escamotage narrativo brillante, lasciando al lettore il tempo di emozionarsi ma anche di sorprendersi.
Il libro in una citazione
«Tu hai sofferto davvero, dice Yazz, mi dispiace, e non lo dico con paternalismo, ti giuro, è proprio empatia
io non ho sofferto, in fondo, mia madre e mia nonna sì perché hanno perso la loro famiglia e la loro terra, ma la mia sofferenza è più che altro una questione mentale
non è una questione mentale quando la gente ti aggredisce per strada
invece sì, in confronto al mezzo milione di somali che sono morti nella guerra civile, io sono nata qui e in questo paese ce la farò, non posso permettermi di non farmi il culo, lo so che sarà tosta quando arrivo sul mercato del lavoro ma sai una cosa Yazz? io non sono una vittima, non trattarmi mai come una vittima, mia madre non mi ha cresciuta per farmi diventare una vittima.»
18 marzo 2022
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