di Stefano Palladini e Sonia Vaccaro
The Beatles: Get Back
Autori: The Beatles
Traduttrice: Valeria Gorla
Foto: Ethan A. Russell, Linda McCartney
Editore: Mondadori
Anno edizione: 2021
Genere: Musica
Formato: 31 x 28
Pagine: 240
Consigliato agli amanti della musica e della fotografia e soprattutto a coloro che vogliono scoprire in presa diretta il processo creativo e la quotidianità della band più importante della storia del pop.
“Get back, get back where you once belonged”, cantano i Beatles. “Ritorna, ritorna da dove sei venuto” significano i versi della famosissima canzone scritta da John Lennon e Paul McCartney nel gennaio del 1969, non molto tempo prima che il gruppo pop più acclamato e influente di sempre si sciogliesse. Un invito a ritornare alle proprie radici, non solo per Jojo e Loretta/Rosetta Martin, i protagonisti del testo, ma per gli stessi Fab Four. Dopo un periodo molto difficile John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr stavano infatti cercando di ritornare a suonare insieme, come una vera e propria band, una musica più semplice e autentica.
È questo il vero senso del grande progetto documentato da The Beatles: Get Back, volume fotografico di 240 pagine che, riportandoci indietro di mezzo secolo, ci consente di rivivere il processo creativo di tutte le canzoni che confluiranno nell’album Let It Be (1970), di gran parte di quelle che ritroveremo in Abbey Road (1969), di molti spunti che verranno sviluppati nei dischi da solisti dei quattro ragazzi di Liverpool e dell’ultimo concerto live che questi terranno insieme sul tetto degli Apple Studios di Londra. Le tre settimane che precedettero la memorabile esibizione di Savile Row sono raccontate dalle loro stesse parole, che il giornalista e critico musicale John Harris ha trascritto da 120 ore di registrazione audio originale delle sessioni in studio.
Il libro The Beatles: Get Back, corredato dalla godibilissima introduzione dello sceneggiatore Hanif Kureishi intitolata All You Need, si inserisce in un concept di più ampio respiro, che comprende l’omonimo documentario della durata complessiva di sette ore e mezzo, trasmesso in tre episodi da Disney+ e diretto da Peter Jackson, regista noto principalmente per la trasposizione cinematografica del Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien. A volume e miniserie si aggiunge inoltre la ristampa multiformato dell’album Let It Be.
Jackson, che nella prefazione al libro racconta come avvenne il suo primo folgorante incontro con la musica dei Beatles, ha utilizzato 55 ore di ripresa originaria girata da Michael Lindsay-Hogg con una pellicola da 16 mm ora restaurata, oltre alle 120 ore di registrazioni audio su cui ha lavorato anche Harris.
L’intenzione iniziale di Lindsay-Hogg, che aveva già collaborato diverse volte coi Beatles, era di produrre uno spettacolo per la tv con lo stile di quello che oggi definiremmo un reality show e a tal fine piazzò anche dei microfoni nascosti. Diversi frame in alta risoluzione ricavati dal filmato restaurato corredano il libro, che però basa il suo forte impatto visivo soprattutto sugli scatti inediti di Ethan A. Russell, fotografo che peraltro firmò anche i ritratti della cover di Let It Be, e di Linda McCartney, che nel 1968 aveva avuto l’onore di essere la prima donna a scattare l’immagine di copertina della rivista Rolling Stone e che per un paio di mesi ancora avrebbe fatto solo Eastman di cognome.
Gennaio 1969, si è detto. Quando ancora in cima alle classifiche svetta The Beatles, meglio conosciuto come The White Album, la band si riunisce in un grande teatro di posa di Twickenham, nella periferia sudovest di Londra. John, Paul, George e Ringo si dimostrano ben presto consapevoli della grande crisi che stanno attraversando. Già tre anni prima, a seguito dell’enorme pressione cui li aveva sottoposti la Beatlemania, avevano deciso di non esibirsi più live e avevano preso temporaneamente strade diverse. Nel 1967 era poi scomparso il loro manager Brian Epstein, morto a soli 33 anni per overdose di psicofarmaci. Per affrontare lo shock, nel 1968 avevano fatto un viaggio in India, a Rishikesh, nell’ashram del Maharishi Mahesh Yogi. E poi era uscito The White Album, spesso considerato come opera di quattro solisti più che di una vera e propria band.
Quando iniziano le riprese a Twickenham, il progetto Get Back è ancora tutto da definire: John, Paul, Ringo e George non sanno assolutamente cosa comporranno e non sono certi di volersi esibire in un concerto finale. Lindsay-Hogg, che crede che i Beatles abbiano il dovere morale di ritornare su un palco, avanza con il suo staff le proposte più impensabili: cerca addirittura di convincerli a suonare in un anfiteatro romano di Sabrata, in Libia, ma si ipotizza anche di organizzare un’esibizione su una nave da crociera diretta in Nordafrica con centinaia di fan selezionati oppure di ritornare al Cavern, il locale di Liverpool da dove tutto era iniziato otto anni prima.
È il 7 gennaio quando Paul, che dalla scomparsa di Epstein ha cercato di prendere in mano le redini del gruppo risultando talvolta mal tollerato, strimpella al basso alcuni accordi blues e – davanti a John, George, Ringo e Yoko Ono – improvvisa una primissima versione di Get Back, in cui compare già il ritornello del testo definitivo. Lo stesso giorno Paul lancia l’idea di uno spettacolo in un luogo vietato, da cui farsi cacciare dalla polizia, ovviamente senza neanche immaginare che questo potesse essere l’epilogo del loro ultimo concerto, l’esibizione più iconica della cultura pop, che sarà replicata diverse volte. Una tra tutte nel 1987, quando gli U2, per realizzare il video promozionale di Where The Streets Have No Name, si esibirono sul tetto di un negozio di liquori di Los Angeles.
A Twickenham la creatività non manca, ma non mancano neppure i dissapori, soprattutto quelli tra George e gli altri, Paul in particolare. Reduce da esperienze molto stimolanti, come quelle con Eric Clapton e Bob Dylan & The Band, il chitarrista mostra insofferenza per il suo ruolo nei Beatles. Non si sente sufficientemente apprezzato, vuole che vengano registrati più pezzi scritti da lui e, dopo qualche litigio, annuncia di voler lasciare il gruppo, ma poi si ricrede.
Ritorna infatti a provare insieme agli altri negli studi della Apple Records, a Savile Row, location meno dispersiva di Twickenham e in cui i Beatles si sentono decisamente più a loro agio. Qui si unisce a loro anche Billy Preston, tastierista afroamericano che suona con Ray Charles e Little Richard e che i Beatles conoscono sin dai tempi in cui si esibivano ad Amburgo. Con il suo contributo, la band ritorna davvero a divertirsi e a comporre grandi pezzi. Ed è bellissimo leggere come questi prendono forma nota dopo nota, parola dopo parola, coniugando storie e melodie. John, Paul, George e Ringo si lanciano in lunghi medley composti da classici rock’n’roll e rythm and blues o brani skiffle pressoché sconosciuti, a dimostrazione del loro enorme bagaglio musicale.
Oltre all’immancabile Yoko, cui John è sempre più legato, a Linda, a Maureen Starkey e a Patty Boyd, attorno a loro orbitano il produttore George Martin, che si tiene stranamente ai margini, il road manager Mal Evans e naturalmente Lindsay-Hogg e il suo staff. Capita da quelle parti anche la piccola Heather, prima figlia di Linda, che conquista tutti con la sua vivacità.
Il processo creativo dà i suoi frutti, ma bisogna trovare un degno finale per le riprese poiché ora l’ipotesi dello show televisivo davanti a un pubblico è definitivamente naufragata. Nasce così l’idea del concerto in cima agli Apple Studios e un laconico “Fanculo… facciamolo” di John mette a tacere tutti i dubbi che, fino all’ultimo, avevano attanagliato soprattutto Paul.
Intorno alle 12.30 del 30 gennaio sul tetto del civico 3 di Savile Row i Beatles e Billy Preston attaccano con Get Back, che suoneranno tre volte, e mentre si esibiscono anche in I Want You (She’s So Heavy), Don’t Let Me Down, I’ve Got A Feeling, One After 909, la ballata folk Danny Boy, Dig A Pony e onorano pure la sovrana con una versione improvvisata di God Save The Queen, paralizzano Londra. Nel giro di mezz’ora alla West End Central giunge una trentina di segnalazioni di cittadini infastiditi dal volume troppo alto e la polizia interviene. Il concerto viene interrotto, Lennon ringrazia “a nome del gruppo e di noi stessi” e dice di sperare di aver “superato l’audizione”. Sappiamo bene che più che un’audizione quello fu un evento straordinario, che i Beatles stessi rivissero di lì a poco riascoltando le registrazioni di quei giorni e sentendosi finalmente soddisfatti.
L’11 aprile uscì nel Regno Unito il singolo Get Back, con Don’t Let Me Down come lato B, e scalò la classifica dei più venduti. Lo stesso accadde negli Stati Uniti un mese dopo. Purtroppo, però, i Beatles non riuscirono a tornare da dove erano venuti o, meglio, a ritrovare la loro vera identità guardando allo stesso tempo al futuro. Il brano fu inserito nell’album Let It Be, che uscì l’8 maggio 1970, un mese dopo che Paul annunciò di aver lasciato il gruppo seguendo le orme di John. Si occupò di remixare il materiale delle sessioni Phil Spector, che però si discostò radicalmente dal desiderio iniziale della band di lasciare la musica essenziale tant’è che nel 2003, per volere di Paul, venne pubblicato l’album Let It Be… Naked, tardivamente fedele alle intenzioni originali. Nel maggio 1970 si tenne anche la prima del lungometraggio di Lindsay-Hogg.
A distanza di oltre cinquant’anni assistiamo al recupero di molto girato inedito che, associato a libro e ristampa dell’album, ci consente un’immersione reale – impresa non pienamente riuscita alla corposa Beatles Anthology di metà anni Novanta – nella vita di questi quattro ragazzi che rivoluzionarono il modo di fare e intendere la musica.
Il libro The Beatles: Get Back fissa su carta leggenda e quotidianità privata di una band che, pur non sapendo quale strada intraprendere, percorre il cammino tracciato dalla propria passione. Associato all’ascolto di Let It Be e magari condiviso ad alta voce tra amici beatlesiani, questo volume dà modo di varcare le soglie dei Twickenham e degli Apple Studios e di essere anche tra i pochi fortunati che nella pausa pranzo del 30 gennaio 1969 riuscirono a salire su quel tetto.
Il libro in una citazione
«È a questo dialogo tra amici che assistiamo qui. Una volta che abbandonarono la tournée e poterono concentrarsi in studio, la musica dei Beatles salì di livello, maturando album dopo album. Come autori, in quel periodo, scrivevano per lo più separatamente. Ma potevano lavorare soltanto avendo in mente gli altri, per poi trasformare a vicenda le idee di tutti. Erano i critici affabili e utili l’uno dell’altro, amici che si aiutavano quando non riuscivano a fare da soli. Per diventare te stesso hai bisogno degli altri.»
Tratto dall’introduzione All You Need di Hanif Kureishi
20 dicembre 2021
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