di Sabrina Colombo
Gli osservati
Autrice: Jennifer Pashley
Editore: Carbonio
Traduttrice: Anna Mioni
Anno edizione: 2021
Anno prima edizione: 2020 (New York)
Genere: Moderna e contemporanea
Pagine: 295
Consigliato a chi ama la narrativa americana, i thriller psicologici a sfondo sociale.
Nordest degli Stati Uniti, a un passo dal confine canadese. A Springs Fall, piccolo centro della Contea di Hamilton, si insedia presso il Comando di polizia Kateri Fisher, detective poco più che trentenne. Alle sue spalle c’è un periodo complicato di dipendenza dall’alcol e un grave incidente che ha messo a rischio la sua vita prima ancora che la sua carriera:
“Non ricordava di essere uscita dal bar o di essersi messa al volante. Quella notte era un buco nero. Si era svegliata in ospedale con cinquantadue punti di sutura sotto il mento, un polso rotto e due costole incrinate. L’avevano ricoverata al reparto per le dipendenze”.
Kateri ha umili origini, una madre tossica, i genitori sono mancati quando era ragazzina ed è cresciuta con la nonna. Dopo la morte di quest’ultima – legame con le sue radici – e il divorzio, lasciare Syracuse diventa un imperativo per tentare di darsi un’occasione di felicità e per ricostruirsi una reputazione professionale.
In una vecchia casa fuori dal centro abitato, al limitare del bosco, è sparita una donna – Pearl Jenkins. Alcune ossa umane, presumibilmente di Pearl, vengono rinvenute semibruciate nella vicina radura. Di suo figlio adolescente Shannon non vi è traccia. Nello sgabuzzino, chiusa a chiave, viene ritrovata una bambina di circa cinque anni, che dice di chiamarsi Birdie e di essere figlia di Pearl. Per l’anagrafe, i registri di nascita e quelli scolastici Birdie non esiste. È subito chiaro per gli investigatori che Birdie è stata tenuta nascosta dalla madre.
Strano personaggio, Pearl Jenkins. Anni prima è scampata a un tentativo di omicidio ai danni suoi e del piccolo Shannon, per il quale è stato condannato in via definitiva suo marito Park. L’incidente l’ha lasciata inabile al lavoro e dipendente dagli antidolorifici. Da allora ha vissuto con i sussidi della previdenza sociale e l’aiuto del figlio Shannon, che fa il lavapiatti. Ha il terrore che il marito – tuttora detenuto – la controlli tramite i suoi sodali della malavita organizzata locale; per questo vive barricata nella casa fatiscente di Hidden Drive, lotto 17, circondata da telecamere a circuito chiuso che trasmettono ventiquattr’ore su ventiquattro le immagini di chi passa per strada.
Shannon è un ragazzo intelligente e sensibilissimo, non ha concluso gli studi, è molto protettivo con la sorellina e teme a sua volta che il padre possa fare uno sproposito una volta uscito di prigione, preso atto che la piccola non può essere sua figlia:
“Ero quel tipo di ragazzino che si metteva spesso nei guai. Che veniva sgridato perché prendeva le scorciatoie attraverso i giardini privati, che veniva sospeso da scuola, che faceva chiamare gli sbirri dai vicini di casa. Tutto di me lasciava presagire che prima o poi, in un modo o nell’altro, sarei finito arrestato, picchiato o ucciso”.
Shannon è un’anima innocente e non ha ancora accettato il suo orientamento sessuale. È attratto dagli uomini, certamente, ma manca di esperienza e non gli sono state trasmesse le coordinate necessarie per comprendere quale sia la differenza tra amore e possesso, tra tenerezza e sensualità. Povero, poco istruito, sottoposto a violenze domestiche, senza prospettive di emancipazione, è il perfetto indiziato per il delitto di sua madre.
La situazione si complica quando Birdie viene prelevata dall’ospedale della contea da un misterioso uomo che si qualifica come tutore legale della piccola. Poco dopo, il poliziotto di scorta della bambina viene ritrovato ucciso all’interno dell’abitacolo della sua vettura, occultata in un corso d’acqua.
Tutti gli indizi sembrano condurre a Shannon, che protesta la propria innocenza, inascoltato: Kateri ne percepisce l’immaturità e il disorientamento di fronte a un evento così grave, e si adopera per seguire piste alternative che sembrano convergere sulle frequentazioni maschili del ragazzo.
In particolare, l’attenzione di Kateri e del collega Hurt si fissa su Bear Miller, ricco rampollo di una famiglia di costruttori edili, che sta realizzando a Spring Falls un quartiere destinato alla upper class, lussuoso ed esclusivo. Bear ha un passato oscuro ed esercita sul giovane Shannon tutto il suo fascino inquietante, arrivando a sedurlo e a sottometterlo psicologicamente:
“Non potevo farmi scoprire da mia madre. E non avrei mai potuto portare a casa Bear, o raccontargli di Birdie. Pensai al suo modo di mostrare tutto se stesso quando ti offriva qualcosa o rideva, mentre io sarei stato capace di far trapelare solo uno spiraglio di me. Era come avere due vite separate. Come se davanti a me si stesse ergendo un muro, e ogni giorno avrei dovuto avventurarmi dall’altra parte per vivere ogni volta una vita diversa”.
Ma non è l’unico uomo adulto che orbita attorno a Shannon, sempre più avviluppato nella rete di possesso, violenza e sesso di Bear: c’è anche Baby Jane, un misterioso vicino di casa, tenero e gentile, che osserva con discrezione i Jenkins e sembra sapere molte cose sul loro passato.
Come già nel suo precedente romanzo Il caravan, pubblicato in Italia nel 2020 sempre da Carbonio Editore con la traduzione di Anna Mioni, la Pashley ci racconta l’America dei cosiddetti white trash, i bianchi poveri, sfruttati, privi di istruzione e di futuro, il sottoprodotto della cultura americana tutta proiettata al raggiungimento del successo economico e all’affermazione edonistica della personalità. Lo fa con realismo, utilizzando una scrittura aspra e poetica che non lascia spazio al facile sentimentalismo: i personaggi sono cupi, abbruttiti dalla violenza che hanno subito e che sistematicamente infliggono in un circolo vizioso impossibile da spezzare, senza redenzione eppure così fragili, irrimediabilmente perdenti di fronte alle sfide della vita. Per stile espressivo, tematiche ed efficacia ricorda – pur nella sua originalità – un’altra grande scrittrice, Joyce Carol Oates, che ha voluto mettere il focus sulle enormi contraddizioni dell’America contemporanea, regalandoci grandi affreschi come, tra gli altri, la quadrilogia di Wonderland.
Da un punto di vista stilistico Jennifer Pashley ha coraggio da vendere: adotta l’espediente – temibile nelle mani di chi non sa destreggiarsi con naturalezza – del duplice io narrante, che si alterna capitolo dopo capitolo. Non solo: costruisce la storia su un doppio piano temporale.
Quando la vicenda è narrata dal punto di vista di Kateri Fisher, l’autrice scrive in terza persona e al presente (a eccezione di pochi passaggi), così da condurre il lettore direttamente sulla scena del crimine e nei luoghi dell’investigazione. Quando il punto di vista adottato è quello di Shannon, invece, passa al racconto in prima persona e il tempo verbale utilizzato è inizialmente il passato – sintanto che il ragazzo ricostruisce il suo background famigliare – per poi sfociare nel discorso al presente, nell’esatto momento in cui le azioni dei due protagonisti si affiancano, e successivamente si intersecano per poi avviarsi all’epilogo che scioglie tutti i nodi narrativi.
Il libro in una citazione
«Mentre tornavo a casa mi ricordai quanto avrei voluto raccontare di lei alla gente, non perché desiderassi mettere in pericolo mia madre, ma perché la adoravo. Volevo portarla in giro per il paese, vantarmi di lei, andare al mercatino e comprarle i pancakes. Sarebbe stato giusto che andasse a fare dolcetto o scherzetto, o che vedesse l’albero di Natale in centro. E non solo i video in bianco e nero della sorveglianza sullo schermo gigantesco in salotto. Non solo il letto di mia madre. E mai e poi mai l’interno di un ripostiglio.Dovevo fare in modo che tutto questo si realizzasse. Per lei. E per me.Non la vedevo come una scelta.»
18 agosto 2021
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