di Sonia Vaccaro
Fedeltà e tradimento
Autore: Chaim Grade
Editore: Giuntina
Traduttrice: Anna Linda Callow
Anno edizione: 2021
Anno prima edizione: 1951 (Usa) per La mia contesa con Hersh Rasseyner; 1974 (Usa) per Il giuramento
Genere: Moderna e contemporanea, Racconti
Pagine: 208
Note: Postfazione di Anna Linda Callow e Tommaso Bellini. Con glossario dei termini ebraici.
Consigliato a chi vuole incontrare un popolo, la sua religione e le questioni che lo tormentano attraverso una scrittura magistrale.
“Come state?” A tutti noi sarà capitato almeno una volta nella vita di sentirci rivolgere questa domanda da un interlocutore che in realtà cercava solo il modo di iniziare il discorso, per poi carpirci informazioni che avevano ben poco a che fare col nostro stato di salute. E sarà anche capitato che questo fosse così invadente da meritarsi una risposta tanto scontrosa quanto quella che Chaim Vilner dà in un primo momento al suo vecchio compagno di studi Hersh in La mia contesa con Hersh Rasseyner.
“Sto come devo stare” risponde Vilner all’amico inquisitore nel secondo dei due racconti lunghi, scritti da Chaim Grade, tradotti da Anna Linda Callow e raccolti da Giuntina in Fedeltà e tradimento, ulteriore testimonianza di come Grade sia – per dirla con le parole del filosofo e saggista Elie Wiesel – “tra i più grandi, se non il più grande romanziere yiddish”.
D’altra parte quel “come state?” non è sempre una domanda conciliante e, rivolta a chi ha abbandonato l’accademia di studi talmudici, può tradursi in un lacerante “come procede la vostra osservanza dell’ebraismo?”. L’interrogativo ripropone pertanto una delle questioni più aperte per la società ebraica contemporanea e, con le dovute proporzioni, oseremmo dire anche per il credente di qualsiasi fede: il rispetto dei precetti deve essere totalizzante o è possibile un’alternativa? Lo studio dei testi sacri può garantire una postura etica inscalfibile solo se praticato in modo intensivo oppure si può vivere onestamente senza impigliarsi nella rigorosissima osservanza che induce alla mortificazione di se stessi?
Queste domande risultano particolarmente urgenti e si arricchiscono di ulteriore significato all’indomani della seconda guerra mondiale, periodo in cui è ambientata gran parte della Contesa. Chaim e Hersh si confrontano senza esclusione di colpi nella Parigi cosmopolita del 1948, davanti alle statue – raffiguranti saggi da esaltare per il primo e idoli da demonizzare per il secondo – che adornano l’Hôtel de Ville.
La recentissima Shoah impone ai due coetanei una riflessione ancora più dilaniante sulle loro posizioni di credenti. Come puoi vivere immerso nella cultura e nella modernità del mondo occidentale – chiede in ultima analisi il sopravvissuto ai campi di sterminio Hersh allo scrittore Chaim – quando questa è arrivata a produrre il nazismo? Come puoi vivere da religioso – ribatte difatti il laico Chaim a reb Hersh – dopo che Dio non ha impedito l’Olocausto? Fede e pace sono le parole chiave delle risposte che i due si danno e che forniscono a noi lettori una visione del mondo e il suo esatto ribaltamento. Grade ne scrive in un dialogo filosofico, costruito come un atto teatrale e scaturito da un insanabile conflitto interiore.
Se è vero che nel personaggio di Hersh Rasseyner è stata ravvisata la figura di Gershon Liebman, amico di gioventù rimasto fedele alla tradizione religiosa, in quello di Chaim Vilner è evidente una forte coloritura autobiografica sin dal nome e dal titolo del suo libro Sì (Yo), che coincide con quello della prima raccolta di poesie di Grade.
Nato in una famiglia ortodossa di Vilna nel 1910, Grade fu educato per diventare rabbino ma attorno ai vent’anni abbandonò l’accademia talmudica e si dedicò prima alla poesia e poi alla narrativa. Dopo aver perso tutta la famiglia nella Shoah, da cui riuscì a salvarsi rifugiandosi in Unione Sovietica, si trasferì a New York. Fu proprio qui che visse fino alla fine dei suoi giorni (1982) e che scrisse i due racconti di Fedeltà e tradimento, accomunati da un tema che segnò tutta la sua vita: il passaggio da una visione esclusivamente religiosa a una più laica del mondo e, come fa notare la Callow nell’illuminante postfazione scritta con Tommaso Bellini, “tra i due tipi di conoscenza a esse associati” poiché lo scontro tra etiche si riflette nella guerra tra testi sacri e profani, siano essi manuali universitari o libri di poesia.
L’accostamento tra La mia contesa con Hersh Rasseyner, pubblicata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1951, e Il giuramento, apparso nel 1974, è rivelatorio. La Contesa offre infatti una chiave di lettura filosofica dei temi affrontati anche nell’altro testo, che comparve nella stessa raccolta in cui venne pubblicato il romanzo breve La moglie del rabbino. Di questo bestseller, portato in Italia nel 2019 da Giuntina sempre con la traduzione dall’ebraico della Callow, Il giuramento ricalca l’impianto classico.
A Vilna, presumibilmente attorno agli anni Venti del secolo scorso, il mercante di granaglie Shlomo Zalman Rapoport è sul letto di morte e avanza ai figli richieste di un certo peso. A Gavriel chiede di abbandonare gli studi universitari in agronomia, verso i quali lo ha incoraggiato lui stesso, per dedicarsi completamente a quelli talmudici e halakhici con il rabbino Avraham Abba Zelikman. Ad Asne, che sta frequentando un ragazzo d’idee comuniste, chiede di sposarsi con un allievo dell’accademia di studi talmudici. I figli di Shlomo non riusciranno a mantenere il giuramento. Sarà la devota moglie Bat Sheva, donna amabile e risoluta, a seguire suo malgrado le volontà del defunto e onnipresente marito. Così onnipresente da rivelarsi vero protagonista del racconto: con la sua ingombrante assenza, Shlomo condiziona pesantemente le esistenze dei suoi famigliari, incutendo loro il timore di ciò che potrebbe accadere per non aver onorato la sua memoria. Tuttavia è inevitabile che anche i figli si sentano traditi dal padre, visto che era stato proprio lui a volerne favorire l’integrazione nella città lituana. Ancora una volta siamo portati a chiederci: chi è fedele? Chi è traditore?
Quando si parla della scrittura di Grade non si deve aver timore di usare impropriamente il termine “magistrale”. La narrazione è limpida, ricca di immagini folgoranti. Nelle descrizioni si visualizzano paesaggi dell’anima, dipinti anche grazie a un sapiente dosaggio di tonalità cromatiche – basti pensare alle varietà di bianco e rosso nella scena del corteo funebre di Rapoport – e di chiaroscuri – con giochi di luce che di sera riescono quasi a modificare la postura delle statue dell’Hôtel de Ville. Dalle ambientazioni gli oggetti spiccano nella loro più completa tridimensionalità – come accade per la frutta e la verdura che Gavriel osserva davanti alla bottega di Zelikman – e dall’intreccio i personaggi emergono in tutta la loro rotondità anche grazie a contrapposizioni esplicite o sottese – memorabile il parallelismo tra Rapoport e Zelikman e tra Hold, prima moglie di quest’ultimo, e Bat Sheva.
L’essenzialità della lingua, mediata da un’efficace traduzione, favorisce il confronto con questioni complesse e sempre estremamente attuali per l’ebraismo e, per chi ebreo non è, facilita l’incontro con un popolo e la sua religione.
Non dovrete dunque sentirvi irritati se, conclusa la lettura, avrete l’impressione che qualcuno vi stia chiedendo: “Come state?”. Perché sembra che Grade ce lo chieda davvero, non con l’invadenza di chi vuole sopraffarci bensì con la benevolenza di chi vuole indurci a raggiungere una piena comprensione del rapporto che abbiamo con la nostra fede e la nostra vita.
Il libro in una citazione
«Colui che studia per mettere in pratica ciò che impara scorge ogni giorno nuove meraviglie nei medesimi precetti, come quando si ama qualcuno e ci si sente sempre nuovamente rallegrati dalla figura della persona amata. Così accade anche all’uomo che ha occhi e cuore per cogliere le meraviglie del Creatore nella natura. Ogni giorno si entusiasma di nuovo vedendo il sole sorgere e tramontare, i lampi e tuoni durante una tempesta, gioisce della bellezza e del gusto dei frutti nonostante li mangi per l’ennesima volta nella vita. Se uno si sente così, tutte le preghiere e tutte le benedizioni recitate sui frutti non sono niente di più di un’abitudine.»
Tratto da Il giuramento.
30 luglio 2021
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