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Home » “SELVAGGI”. LA JOHNSON CI PORTA NEGLI ZOO UMANI, LATO OSCURO DELLA “CIVILTÀ”

“SELVAGGI”. LA JOHNSON CI PORTA NEGLI ZOO UMANI, LATO OSCURO DELLA “CIVILTÀ”

La copertina del libro "Selvaggi" di Katherine Johnson (Jimenez Edizioni)
Quattro stelline e mezzo

Selvaggi
Autrice: Katherine Johnson
Editore: Jimenez
Traduttore: Gianluca Testani
Genere: Romanzo storico
Anno edizione: 2021
Anno prima edizione: 2019 (Australia)
Pagine: 350

Consigliato a chi ama imparare leggendo storie che sanno emozionare.

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di Sonia Vaccaro

Il 15 febbraio 1882 la sedicenne tedesca Hilda Müller si trova a K’gari, la meravigliosa e incontaminata Isola di Fraser, nel Queensland, e scrive sul diario che, dopo sei anni trascorsi nelle colonie australiane della Corona d’Inghilterra, presto ritornerà in Europa con suo padre Louis e tre suoi cari amici aborigeni di etnia badtjala: Bonny, Jurano e Dorondera. Questi ultimi lavoreranno come performer esotici negli spettacoli etnici e nei cosiddetti „zoo umani“, mostre antropozoologiche organizzate dall’impresario Carl Hagenbeck.

Il viaggio di Hilda, di suo padre e dei tre giovani aborigeni inizia esattamente dieci giorni dopo, dura due anni e trasporta noi lettori dall’Australia coloniale al cuore dell’Europa, rendendoci partecipi di pagine di storia ancora troppo poco conosciute, quelle che videro queste forme di intrattenimento contribuire alla diffusione dell’idea razzista di massa.

Con Selvaggi Katherine Johnson, giornalista scientifica che nel Queensland è nata, focalizza l’attenzione sulle esibizioni che, tra il 1800 e il 1958, attirarono circa un miliardo di spettatori sulle due sponde dell’Atlantico e coinvolsero oltre 35mila performer, non solo Australneger, come li chiamava Hagenbeck, ma anche cingalesi, zulu, lapponi, nubiani, eschimesi, fuegini, samoiedi e individui con malformazioni.

La Johnson è arrivata alla stesura di questo suo quarto romanzo – tradotto in italiano dall’editore Gianluca Testani per la sua Jimenez – dopo una ricerca durata ben sei anni, a conclusione del dottorato in scrittura creativa della University of Tasmania. Partendo da lettere, diari, articoli di giornale e rapporti scientifici – di cui troviamo ampi stralci nel testo – l’autrice australiana ha scritto una storia quasi vera, o meglio ispirata a quanto effettivamente accadde a Bonny, Jurano e sua nipote Dorondera, che furono condotti in Europa al pari di reperti viventi. Realmente esistiti sono anche Müller, artefice del loro trasferimento, Hagenbeck nonché altri impresari e scienziati che rivestono un ruolo non indifferente nella storia, appassionante e dolorosa, costruita attorno alla figura della giovane Hilda.

Ed è proprio Hilda, personaggio interamente creato dall’autrice, a conferire umanità al romanzo. Narrando speranze, emozioni, palpiti amorosi, sofferenze, illusioni e disillusioni di questa ragazza, la Johnson scrive un testo che, seppur molto ben documentato, non si pone mai come una fredda ricerca antropologica. Tutt’altro.

Hilda arriva a K’gari ancora bambina, dopo che suo padre ingegnere perde il lavoro in Germania a seguito del crollo di un ponte da lui progettato, e viene educata da sua madre Christel a pensare con la propria testa e a non farsi influenzare dalle opinioni altrui sugli aborigeni. Dopo la morte di Christel, in Hilda e Louis nasce il desiderio di fondare una riserva in sua memoria per salvare dall’estinzione i badtjala, falcidiati da malattie e colonizzatori. Dalla volontà di tramutare questo sogno in realtà e di far conoscere la civiltà aborigena in Europa scaturisce la determinazione con cui Bonny, Jurano e Dorondera accettano di lavorare per Hagenbeck, socio in affari del papà di Hilda. Bonny, in particolare, vuole recarsi alla corte della Regina Vittoria a intercedere per gli aborigeni, convinto che la sovrana non solo possa comprendere le sue ragioni ma arrivi anche a schiaffeggiarsi le cosce in segno di apprezzamento dopo averlo visto danzare.

Il destino che aspetta Bonny e i suoi amici è però ben diverso. Sin dalla traversata in mare vengono trattati alla stregua di animali esotici, come un carico insolito da rinchiudere in sottocoperta. Al porto di Amburgo c’è chi li scambia per scimmie e ricche signore dalle mani guantate accarezzano compiaciute il volto dei bambini che lanciano loro banane. Nel giardino zoologico di Hagenbeck – che nel perenne tentativo di ricavare denaro dall’autenticità cade paradossalmente nella trappola della spettacolarizzazione – vengono accostati a specie di animali provenienti da tutto il mondo, morbosamente osservati dal pubblico nelle più comuni pratiche quotidiane e costretti a vivere in una capanna, in cui i visitatori entrano senza preoccuparsi di introdurre fango e sterco. Per non parlare, poi, di ciò che succede quando i tre badtjala vengono studiati da scienziati senza scrupoli, che non esitano a ricavarne calchi in gesso da mettere in mostra, come quello a figura intera di Bonny, ancora oggi esposto dal Museo di storia naturale di Lione, in Francia.

In un contesto in cui tutto concorre alla costruzione di un’immagine di inferiorità dei tre aborigeni, l’obiettivo della riserva intitolata a Christel svanisce ben presto. Assieme a questo grande sogno Hilda vede dissolversi anche il rapporto con suo padre, oramai divenuto un burattino in mano agli uomini che tengono i cordoni della borsa e capace di crudeltà inenarrabili, che la Johnson riesce però a fissare efficacemente su carta. Ne scaturirà un dolore atroce, che per Hilda segnerà la perdita dell’ingenuità e il passaggio all’età adulta.

La scrittura della Johnson rivela accuratezza linguistica non solo nella descrizione delle tradizioni badtjala, peraltro esito di un costante confronto che l’autrice ha tenuto con membri di questa etnia, ma anche in quella dei numerosi luoghi, dislocati tra Australia ed Europa, in cui la vicenda si svolge. Efficace la scelta di affidare in alcuni capitoli la narrazione a un fantasma, che percepisce i pensieri degli aborigeni e ne fa emergere il punto di vista, notoriamente taciuto dai documenti ufficiali, a dimostrazione di come un artificio letterario apparentemente ingiustificato possa talvolta rivelarsi mezzo ottimale per rendere tutte le sfaccettature della realtà.

Selvaggi è un romanzo che chiama noi lettori a riflettere sull’assurda stupidità dell’uomo che, pretendendosi civilizzato, mostra invero di non esserlo affatto. La Johnson non giudica mai, non lo fa neppure nelle indimenticabili pagine che narrano con dovizia di particolari disumani come si produsse il calco a figura intera del vero e proprio prototipo scimmiesco Bonny. Eppure colpisce nel segno perché, limitandosi a mostrare ciò che accade agli occhi di lettori giustamente increduli, li porta a chiedersi a chi si debba realmente applicare l’etichetta che dà il titolo alla traduzione italiana del suo romanzo storico.

Il libro in una citazione
«“Beeral, forse questo è un trucco e io resterò chiuso per sempre dentro questo guscio” dice. “Forse nemmeno Hilda sa cosa hanno previsto per me. Gli stranieri bianchi vogliono possedermi. Consumarmi. Mi chiamano menschenfresser, ma i cannibali sono loro.”»

7 maggio 2021
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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