di Sonia Vaccaro

Autrice: Laura Forti
Editore: Giuntina
Genere: Memoir
Anno edizione: 2020
Pagine: 159
Consigliato a chi vuole capire cosa può lenire il dolore.
Una madre in fin di vita libera il segreto che tiene rinchiuso in sé da troppo tempo: rivela alla sua ultima figlia che l’uomo violento e scostante che l’ha cresciuta non è il suo vero padre. Per poter sopravvivere a se stessa la figlia, stravolta da una verità ora tanto manifesta quanto prima inconsciamente avvertita, deve ricolmare le crepe profonde che la rivelazione ha tracciato nella sua memoria personale e famigliare.
Nel memoir Forse mio padre quella figlia, che si chiama Laura Forti, integra realtà e immaginazione per affrontare con la scrittura le tappe di negazione, elaborazione, rabbia e accettazione del lutto di una madre demone, di un padre biologico mai conosciuto e di un’identità che le è stata imposta.
Scrivendo una lunga lettera al suo forse padre – e, indirettamente, anche al lettore – la Laura narratrice si cala nel ruolo di un’anziana primipara e arriva a dar vita a chi l’ha messa al mondo, esercitando la facoltà della memoria artistica, quella capace di colmare i vuoti con la pienezza della scrittura creativa, fissata su carta da parole ben ponderate. Ed è così che la mancata presenza paterna, inizialmente percepita come una malattia strisciante e potenzialmente in grado di insinuarsi dentro e ricavarsi uno spazio scavandolo negli organi vitali, diventa capace di far conoscere a Laura il valore della sensibilità, della fragilità, della delicatezza.
In passato alla mancata presenza paterna si è sovrapposta quella ingombrante della madre, che non solo ha imposto al vero padre il veto di avere un rapporto con la figlia segreta ma ha anche trattato quest’ultima alla stregua della propria immagine riflessa, tentando di inculcarle valori e scelte che non le appartenevano. Nell’immaginario dialogo tra padre e figlia la madre, la donna di cui entrambi sono stati innamorati, diventa così la vera protagonista.
Nata in una famiglia ebrea, la mamma di Laura riesce a sopravvivere alle atrocità del Novecento. Da ragazza è meravigliosamente attaccata alla vita: partecipa alla lotta partigiana, fa l’interprete per gli americani e, delusa dall’Italia fascista, contribuisce in prima persona a realizzare il sogno sionista della fondazione dello Stato d’Israele. Da donna sente il peso delle aspettative disilluse, dopo essere ritornata in Italia per sposare un goy, un ragazzo non ebreo, che si è trasformato ben presto in un uomo troppo diverso da lei. Quando si allontana temporaneamente da casa per ritrovare se stessa e il senso della propria vita coniugale, questa donna in conflitto con la quotidianità ritrova invece il suo primo amore, conosciuto in tempi di guerra a Baccinello, paesello del Grossetano, dove si era rifugiata con sua madre e sua sorella.
Quel ragazzo tanto semplice, dieci anni più grande di lei, che tutti conoscevano per la sua caratteristica macchia rossa in faccia, già allora seppe scorgere sotto quella personalità reattiva la bambina traumatizzata dall’abbandono del padre, che aveva preferito rifugiarsi altrove con la famiglia d’origine anziché proteggere moglie e figlie. Lui la confortò e se ne innamorò perdutamente, lei rispose chissà alla sua proposta di matrimonio.
Anni e anni dopo da quel chissà nasce Laura, che narra di essere frutto di una vendetta e di portare nei geni la rabbia che travolse sua madre, rendendola una donna disprezzabile, manipolatrice, abile e crudele costruttrice di una rete d’inganni in cui intrappolare Laura stessa e suo padre. Una donna vissuta del mito di sé, che voleva riscattarsi dal presente trasformando la figlia sua nella copia di sé ragazza: le tagliò i capelli cortissimi, le regalò soldatini anziché bambole, la scelse come unica figlia cui far praticare la religione ebraica, le impose la lettura delle storie della bambina maschio Pippi Calzelunghe.
Nel raccontare di sua madre e della sua famiglia senza mai autocommiserarsi, la Laura narratrice racconta anche la storia del popolo ebraico travolto dalla guerra e, in particolare, di quella generazione di salvati che dovette riaffacciarsi alla vita nel silenzio, nel disinteresse generalizzato, nel desiderio di rimozione delle atrocità. Narra così pagine di storia non comuni, in cui emergono i sentimenti di chi ha visto i propri parenti sparire nel fumo.
Ancora una volta Laura Forti, drammaturga italiana molto amata anche all’estero, riesce a far svolgere alla scrittura un ruolo fondamentale. In Forse mio padre spiega come il suo vissuto si è fatto narrazione: Laura ha iniziato a scrivere questo memoir dopo aver sognato di possedere le chiavi di casa di Guido Ceronetti, fondatore tra l’altro del Teatro dei sensibili, che lei considera suo padre vicario intellettuale. Proprio le chiavi di quella casa di Cetona, dove Laura si recava a far visita al suo maestro, le hanno consentito di accedere a ciò che lui le ha lasciato in eredità: la scrittura che dona vita.
Forse mio padre è un breve memoir densissimo, in cui non viene sprecato un rigo, in cui la parola, scelta con precisione chirurgica, non perde naturalezza e si rafforza con la lettura ad alta voce. Quello di Laura Forti è uno stile potente, frutto di un intenso, faticoso e coraggioso lavorio interiore. La penna diventa bisturi per scavare dentro di sé e condividere le ferite dell’anima, coinvolgere il lettore nella propria solitudine donandogli però sollievo. Perché la possibilità di liberare ciò che di doloroso ci è stato inflitto e di salvare ciò che di buono ci è stato donato – fosse anche solo l’unica lacrima sincera di una madre demone – esiste per ognuno di noi. Eppure, oltre a quella lacrima, tra le pagine di Forse mio padre possiamo trovare ben di più.
Il libro in una citazione
«Quando la memoria non c’è, non basta o resta muta, bisogna costruircene una nostra. Dobbiamo avere fede nella fantasia.»
8 aprile 2021
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