di Sonia Vaccaro

A un giovane professionista pugliese non tornano i conti ed è costretto ad andare a Bologna con un volo aereo per redimere la questione. Nulla di straordinario, direte voi. In effetti, non lo sarebbe se i meccanismi quotidiani regolati dall’algoritmo esistenziale funzionassero alla perfezione, ma non è così.
La perdita della lucidità, la fretta e il timore di non centrare l’obiettivo trasformeranno il banale viaggio di lavoro di quest’uomo in balia degli eventi in un inestricabile intreccio di insidie, riflessioni e illusioni, capace di immergere il lettore in un testo dalle tante sorprese.
La personalità del protagonista di Tutta una questione di algoritmo riflette inevitabilmente quella di Luca Bovino, 43enne avvocato pugliese, che ne ha raccontato le imprevedibili vicende in un breve romanzo d’esordio, ispirato anche dalla potenza immaginativa dello scrittore argentino Jorge Luis Borges.

Luca Bovino, come è nata l’idea di Tutta una questione di algoritmo?
«L’idea è nata dalla volontà di liberarmi di alcuni fantasmi che aleggiavano nella mia mente da tempo. Ho iniziato a immaginare l’episodio centrale, in cui il protagonista si trova in una libreria e s’imbatte in un libro che lo lascia sbigottito, e ho ricostruito un percorso prima per entrare in quella situazione e poi per uscirne. Quanto narrato è anche ispirato a un fatto che mi è realmente accaduto durante un viaggio di lavoro. Lo spunto per un canovaccio romanzesco lo avevo davanti agli occhi, dovevo soltanto camuffarlo per rendere il vero verosimile e il possibile impossibile.»
Molto sommariamente un algoritmo potrebbe essere definito come quella formula che, date certe condizioni, consente a X di trasformarsi in Y. Ci sono affinità tra questa definizione e l’algoritmo di cui parla nel suo romanzo?
Non sono molto d’accordo con l’idea che un algoritmo implichi una ‘trasformazione’. Piuttosto, preferirei vederlo come un ‘movimento’, un procedimento che consente a X di raggiungere l’obiettivo Y attraverso il percorso Z. Però X, Y e Z non cambiano mai la propria natura, non compiono alcuna metamorfosi: seguono semplicemente un percorso.
Anche a causa dell’emergenza sanitaria, tutti noi abbiamo sempre più la percezione di vivere in una società dominata dalle piattaforme digitali, in cui gli algoritmi contribuiscono a determinare le nostre scelte. Tuttavia, anche le formule algoritmiche di queste piattaforme tengono conto delle nostre azioni per predirne o influenzarne le successive. Talvolta, il suo protagonista sembra invece sentirsi totalmente deresponsabilizzato, perché tanto dipende tutto dall’algoritmo. Così non si rischia di dare il cattivo esempio?
«A dir la verità, il mio protagonista smette di avere fiducia negli algoritmi già a metà del suo viaggio, e cioè nella prima parte del libro. Ma è dopo aver concluso il viaggio che inizia letteralmente a naufragare, smarrirsi, svanire. Nella sequenza di algoritmi che oggi domina il nostro sistema sociale siamo noi le X, le incognite dell’equazione. E siamo continuamente indotti a muoverci dalla posizione Y alla posizione Z. Ogni scelta che adottiamo è sempre condizionata da un algoritmo che vorrebbe, magari docilmente, portarla verso l’obiettivo razionale prefissato dal sistema. Come ricordava Edgar Allan Poe, l’equazione può compiere qualsiasi operazione disinteressandosi completamente del contenuto della propria incognita, dunque rimane del tutto indifferente al significato della propria X. Oltretutto, il sistema è tanto più efficace, quanto più l’algoritmo possa valere per qualsiasi incognita, per ogni X. La cosa incredibile è che siamo convinti che la nostra società stia celebrando l’individualismo, quando invece siamo pienamente immersi in un contesto massificato e serializzato, quant’altri mai. Forse il problema del mio protagonista è un altro: la coscienza del fatto che l’algoritmo è la condizione per l’esistenza della nostra grammatica, della sintassi, della retorica; e cioè gli strumenti, o i percorsi, che ci consentono di poter dare forma a un’idea, comunicarla a qualcuno, massimizzando l’efficacia di questa trasmissione. È il nostro linguaggio. Possiamo studiare, o possedere naturalmente, la capacità di affinare algoritmi comunicativi, ma resta il fatto – e questo è davvero molto curioso – che pur conoscendo la regola, potremo riconoscerne solo le eccezioni.»
I personaggi femminili sono estremamente marginali nel suo testo. Sarà mica perché le donne riescono a sfuggire alle grinfie dell’algoritmo?
«Magari! Se così fosse mi farebbe davvero piacere. Ma la realtà è che questo primo romanzo è molto autoreferenziale, forse più di quanto dovrebbe esserlo. E, quindi, il focus della narrazione è incentrata su un uomo. Ho pensato molto al fatto di volerlo lasciare senza sesso, oltre che senza nome, ma era troppo complicato dal punto di vista linguistico. L’ambivalenza morfologica è un problema serio per l’italiano, specialmente quando s’imposta un discorso: bisogna partire prima dal genere, e poi decidere la parola. Forse in inglese sarebbe stato possibile, magari mantenendo il testo sempre in prima persona, ma nel caso dell’italiano, prima di ogni riferimento, di ogni espressione, di ogni parola dedicata al mio protagonista, avrei dovuto pensare al fatto che fosse maschile o femminile. Quindi ho dovuto scegliere. E ho scelto ciò che mi era più vicino.
In ogni caso, non credo che le donne sfuggano all’algoritmo più di quanto possano farlo gli uomini. A quale algoritmo, poi? Tutta la società è fondata su un algoritmo, a partire dal linguaggio. Però è una formula approssimativa, piena di falle, che funziona al contrario. Del resto è giusto che sia così: non esisterebbe la legge se non ci fossero le infrazioni. E la legge si vede solo quando viene trasgredita: i carabinieri arrivano solo quando c’è un ladro. È, in fondo, anche questa l’origine mistica del diritto di cui parlava Jacques Derrida. Se tutti si comportano in maniera onesta, i tribunali possono anche rimanere chiusi. Allo stesso modo, ti accorgi che un algoritmo esiste solo quando non funziona: finché va tutto bene sei convinto di essere padrone del tuo destino. Però non credo al determinismo, o al meccanicismo, anzi. È proprio la consistenza rabberciata delle regole cui siamo sottoposti a consentirci di rompere spesso la gabbia, rivolgendo lo sguardo alla natura, più che alla cultura. Al suono, più che al senso.»
Capita spesso di inserire un alter ego nel proprio libro d’esordio. Lo ha fatto anche lei con il suo protagonista?
Quel protagonista sono io, non c’è dubbio. Quindi, nessun ‘alter’, solo ‘ego’. Il primo romanzo è spesso concepito con una particolare intensità tragica, perché chi scrive sa che potrebbe sempre essere l’ultimo. Si potrebbe non avere il tempo, o l’ispirazione, o la calma interiore per scrivere ancora, in futuro. E nello stesso momento si avverte la necessità di includervi ogni cosa. È una sorta di testamento spirituale, nel quale si dispone compiutamente di tutte le proprie sostanze morali, emotive e mnemoniche nel timore che restino obliate in qualche cassetto della nostra trivialità. Ovviamente parlo per me, e di me. Io avevo questa paura. Per questo motivo, il libro è pieno di riferimenti, connotazioni, citazioni che esprimono il mio immaginario in maniera quasi totalizzante. La vera difficoltà è stata quella di averlo fatto in 130 pagine, piuttosto che in 900.
Perché non ha dato nome al suo protagonista?
«Per tanti motivi. Principalmente perché una delle intuizioni estetiche cui volevo dare corpo era l’infrazione dei dogmi principali della cosiddetta scrittura creativa. Secondo un canone universalmente invalso, ogni libro dovrebbe avere un personaggio fortemente caratterizzato, nel quale il lettore si possa identificare, e questa identificazione dovrebbe partire dal nome. Non condivido questa accidentale necessità. Ma perché poi? Perché proprio il nome? Secondo me è un elemento tutto sommato narrativamente superfluo, al quale si dà forse un’importanza eccessiva. Nel Banchiere Anarchico Fernando Pessoa diceva che nell’abrogazione delle convenzioni sociali e nel tentativo di tornare alla natura sta la vera essenza dello spirito anarchico. Il nome non è altro che questo: un portato culturale e non è indispensabile. Nel diritto naturale un articolo dedicato al “diritto al nome” non esisterebbe, anzi. Non esisterebbe neanche il diritto naturale, espressione che contiene già un ossimoro. Eppoi, al protagonista senza nome ci hanno già pensato molti altri. Come Franz Kafka, che aveva chiamato il suo personaggio nel Processo semplicemente con un’iniziale: K. Senza voler dimenticare Italo Calvino, in Se una notte d’inverno un viaggiatore: lì il protagonista è il lettore, e il romanzo è in seconda persona. Astraiamo l’uomo da ogni contesto culturale e poniamolo nella propria essenza naturale, insieme alle altre specie viventi, e poi ripensiamoci. Improvvisamente il nome cessa di avere qualsiasi significato. Hanno forse bisogno di un nome gli animali per chiamarsi tra loro? “Una rosa sarebbe sempre una rosa se avesse un altro nome?”, si chiedeva Giulietta. Io credo di sì. E con me almeno altri cinque miliardi di persone con un idioma extraeuropeo. Il nome è una parola che ci ripetono da quando siamo piccoli per farci identificare con un suono. È il talismano che ci consegnano per affrontare il mondo, ma allo stesso tempo è anche una nostra catena.»
Qual è il messaggio che voleva trasmettere con il suo romanzo?
«Alcuni dicono che ormai sia tramontata definitivamente l’epoca del romanzo ideologico come veicolo di un contenuto edificante, se non proprio educativo. Personalmente non credo sia necessario funzionalizzare un testo a un messaggio. Anche perché, poi, non è detto che al lettore arrivi esattamente il messaggio che voleva veicolare l’autore.
Andrea Camilleri ricordò quando Anton Čechov venne a Milano e, vedendo la prima a teatro del suo Giardino dei Ciliegi, scoppiò a ridere nello sgomento generale della produzione. E poi abbandonò il teatro perché non riusciva più a trattenersi dagli sghignazzi, ricordando agli astanti come la sua opera fosse una commedia, e non la tragedia che stava vedendo in scena. Rideva, ma per tutti gli altri c’era da piangere. Analoghe incomprensioni subì Kafka, autore di mirabili racconti umoristici, passato alla storia della critica letteraria, invece, come un archetipico musone. Oppure, pensiamo al Lev Tolstoj di Anna Karenina, qual era il messaggio di quel libro: il biasimo per la frivola mondanità, o la sua celebrazione?La condanna delle ipocrisie borghesi, o la fiducia nello spirito di collaborazione tra le classi? Oppure Gustave Flaubert: la sua Madame Bovary era un atto di censura contro l’adulterio (come diceva lui), o ne costituiva una forma di romantica apologia (come ritenne il procuratore della repubblica di Parigi)? Il tema s’impone, ma non se ne dispone. E poi l’autore non ha il monopolio delle letture del proprio testo, anzi, dovrebbe gentilmente morire dopo averlo scritto per evitare di condizionare le letture altrui. Lo scriveva Umberto Eco nella Postilla al Nome della rosa, una comoda soluzione ermeneutica che francamente mi trova molto d’accordo. Tranne per il fatto che preferirei non uccidermi. Anche se poi Eco non riuscì a resistere alla tentazione e in un successivo libro, I limiti dell’interpretazione, si mise a interpretare i suoi precedenti romanzi.»
Perché il suo libro merita di essere letto?
«Chi può davvero dire se un libro meriti di essere letto è il lettore, non lo scrittore. Rispondendo a questa domanda faccio la figura dell’imbonitore, del piazzista, del mercante in fiera, dell’ogni-scarrafone-è-bello-a-mamma-soa. Evidenti, e proverbiali, ragioni di opportunità militerebbero per il silenzio. Però, è anche vero che se non rispondo affatto, forse faccio una figura persino peggiore: darei l’idea di non credere neanch’io nel libro che ho scritto. Diciamo che chi legge questa intervista può farsi un’idea dello scrittore, e del romanzo che avrà potuto scrivere. E quindi rispondo alla domanda così: le ragioni e le spiegazioni che la domanda vorrebbe sapere sta nelle risposte date a tutte le altre.»
Lei è particolarmente esigente con il lettore del suo romanzo: crea aspettative che in un secondo momento tende a disattendere per poi crearne delle altre. A chi immaginava di rivolgersi quando scriveva?
«Anche questa è una controversia annosa: chi è il narratario della narrazione? Secondo qualcuno, evitare di porsi il problema del lettore del testo prima di scriverlo sarebbe un errore fatale, addirittura un’aberrazione. Sono d’accordo, ma solo nella misura in cui il testo sia destinato al commercio, e voglia candidarsi a essere esclusivamente un oggetto di consumo. Però il mio non è un prodotto di consumo, e neanche un precipitato editoriale. Credo che il problema del lettore ideale sia sopravvalutato. In fondo, il lettore ideale non esiste: ci sono solo lettori empirici, peraltro molto diversi tra loro. Scrivendo pensavo soprattutto a un libro che mi facesse piacere leggere. E devo confessare che non sono molto compiacente, soprattutto con me stesso.»
Pur narrando di faccende e inghippi estremamente quotidiani, lei riesce a dare al testo una dimensione onirica facendo ricorso a un vasto repertorio di espressioni eufoniche, figure retoriche, pseudo citazioni…
La dimensione onirica è parte integrante di ogni espressione letteraria, di ogni esperienza umana, di ogni linguaggio. Parlare significa rendere presente qualcosa che è assente, se non addirittura insistente. L’attività intellettuale, culturale, letteraria è fatta di questo. Di rappresentazioni di assenze, di segni che richiamano altri segni: di bugie, in fondo. E di sogni. Ogni tanto viene voglia di svegliarsi, di gridare, di rompere la bolla onirica nella quale sembriamo imprigionati. Talvolta mi sembra di parlare con la voce di Guido Gozzano, quando cantava: ‘Questa vita sterile di sogno/ meglio la vita ruvida, concreta/ del buon mercante inteso alla moneta/ meglio andare sferzati dal bisogno/ ma vivere così, io mi vergogno / sì, mi vergogno di essere un poeta‘. Per fortuna – o per disgrazia – faccio un lavoro molto poco onirico, per lo meno nel modo con cui lo faccio io, a contatto diretto con le persone, con i problemi, con le dinamiche. A ogni modo, il romanzo non può che trovarsi nel territorio del sogno. Perché è nella patria dell’emozione, del sentimento, del ricordo. E tutti i ricordi, alla fine, col passare del tempo, si trasformano in sogni, ne assimilano la natura. Anzi, come ricordava Calderón de la Barca, tutte le emozioni, tanto quelle vissute, quanto quelle semplicemente sognate, col passare del tempo diventano uguali.
Il suo protagonista si ritrova anche nel bel mezzo di una bolla letteraria, in cui hanno libri come L’idiota di Fëdor Dostoevskij e Consigli a un giovane scrittore di Vincenzo Cerami giocano un ruolo fondamentale. Nella sua formazione che ruolo hanno avuto questi testi?
«Un ruolo fondamentale, per lo meno nel periodo in cui stavo scrivendo. L‘idiota è un libro irripetibile e disumano: il racconto di un uomo tornato alla vita, dopo la morte, sotto forma di fantasma. E, in effetti, è questo ciò che accadde a Dostoevskij dopo essere stato condannato a morte, e poi graziato sul patibolo (episodio, peraltro, citato proprio nell’Idiota). Non è certamente il romanzo migliore di Dostoevskij, anzi. Contiene numerosi errori strutturali, ripetizioni di sequenze, intermezzi completamente inutili, ma ha anche tante immagini indimenticabili, come la scena della mazzetta di banconote gettata nel fuoco, o l’incredibile intemerata contro la chiesa cattolica presente nei capitoli finali. Milan Kundera lo definì un’insopportabile attestazione del sentimentalismo russo, cui voleva opporre il proprio razionalismo mitteleuropeo. Non aveva tutti i torti. Quanto al libro di Cerami, è stato il viatico che mi ha accompagnato verso la scoperta dello strutturalismo, della sceneggiatura, dei primi rudimenti per decodificare un testo letterario. Molte delle citazioni che riporto sono apocrife, ma mi è piaciuto il rapporto che istituiva tra il testo e la retorica poetica. In particolare il richiamo alla metonimia, come traslato per descrivere un ricorrente espediente letterario. La lettura di Cerami è stata davvero molto formativa, imprescindibile per la scrittura del romanzo. E in effetti, ci sono tantissime metonimie, e tantissime fughe che, altrimenti, forse, non avrei avuto ragione di inserire.»
A lei è mai capitato di sentirsi in una bolla letteraria, in cui sembra che la propria storia sia già stata scritta da altri?
«Certamente. E moltissime volte. Un po’ come i protagonisti del Mondo di Sofia, di Jostein Gaarder. Però una circostanza voglio proprio menzionarla: proprio durante il primo periodo della pandemia mi capitò di leggere un racconto di Italo Calvino tratto dalle Cosmicomiche, i cui protagonisti erano proprio dei globuli infetti. Ero chiuso in casa da alcuni giorni, non era ancora chiaro se, e quando saremmo tornati alla nostra vita precedente, c’era timore anche a uscire per pochi minuti. Adesso, tutto sommato non è cambiato molto, ma in quei primi giorni c’era un senso di smarrimento surreale annichilente. A ogni modo, ero seduto sul divano e dalla finestra veniva una luce minacciosa, avevo l’idea che fuori ci fosse una specie di guerra, e rimanevo incollato sulle complicate geometrie narrative create dalle parole di Calvino. Quando, a un certo punto del racconto, mi accorgo che viene citata la città di Codogno, per ben due volte. Ebbi una specie di brivido. E poi l’impulso di condividere quella lettura su facebook scrivendo un piccolo commento a quel racconto, e a quel periodo. E pensavo, ma a chi diavolo sto scrivendo? I miei contatti, i miei amici virtuali, chi sono? Cosa sono? Potrebbero essere semplicemente icone associate a parole, che differenza potrebbe fare, ora? E già, ma io cosa sono, in questo momento, per loro? E per me? Mi trovavo in preda alla più angosciosa paranoia, e alla fine, come tutti i paranoici ebbi la sensazione di aver compreso tutto. Ero semplicemente in una bolla, in un piccolo universo letterario, in un sogno. Sognato da Italo Calvino, tanti anni prima.»
Le vicende narrate sono ambientate tra la Puglia e l’Emilia-Romagna e, più che attraverso la vista, il lettore percepisce i luoghi attraverso l’olfatto. Come ha selezionato profumi e odori da attribuire all’una e all’altra località?
«Che bella osservazione! I profumi, le fragranze, gli odori, i miasmi, i lezzi per me sono importantissimi. Non faccio nessuna selezione, sono loro che selezionano me e mi vengono incontro. Io devo solo ricordarli, e provare a evocarli nell’unico modo possibile: nominandoli. Ricordo perfettamente le volte in cui sono andato a Bologna e a Bari. E ricordo tutti gli odori che provenivano da quei luoghi. È un’impresa terribile quella di citare le sensazioni olfattive. Sono le uniche esperienze sensoriali che nella nostra tradizione culturale non abbiano ancora avuto una rappresentazione estetica. Neanche un verbo, a dare dignità a quella percezione. C’è odorare, ma è riferito alla cosa che odora, non alla percezione del soggetto che esperisce quell’odore. Esiste il verbo “annusare”, ma esprime solo l’azione correlata all’uso del naso, mentre per l’azione successiva, cioè l’interiorizzazione dell’esperienza filtrata dal naso non abbiamo espressioni nel nostro vocabolario. Dovrebbe esserci il verbo “olfattare”, e invece non c’è. L’unico modo per evocare quelle sensazioni è attraverso l’immaginazione, quindi con la scrittura, che è un’esperienza esclusivamente intellettuale. Eppure, attraverso gli odori potresti descrivere un mondo, abrogare le distanze, invertire il tempo, avere la coscienza della sua deludente natura. La pioggia d’autunno sulle foglie dei cipressi, il fieno stivato nelle balle, la resina collosa degli infissi nelle case nuove, lo sterco delle vacche ammonticchiato nella terra; questi odori sono la mia infanzia: non una sua evocazione. Se mi capita per caso, o per sbaglio, o per scelta di avvertirli, provo la stessa sensazione che provai la prima volta, non una sensazione simile o uguale. È proprio la medesima percezione. Come ricordava Borges, che già prima di diventare cieco, riusciva a vedere nel buio, sono le esperienze sensibili a insegnarci la precarietà del tempo. Una persona alla quale sono molto affezionato qualche anno fa subì un incendio, ma il fuoco risparmiò un armadietto che custodiva il vestito indossato da sua madre nell’ultimo giorno di vita. Dentro quel vestito c’è il suo odore, e lì c’è ancora lei, mi diceva. E aveva perfettamente ragione.»
È piuttosto difficile catalogare il suo libro in un genere preciso. Lei dove lo collocherebbe?
«Pur avendo cercato a lungo, e invano, devo ammettere che non esiste ancora un nome per un genere di romanzo come il mio. Ma questo non è affatto un problema, anzi. Posso comunque dire che Tutta una questione di algoritmo è una specie di giallo, nel quale, però l’indagatore è il lettore, e l’indiziato numero uno è lo scrittore. Lo so, è quello che sosteneva anche Umberto Eco a proposito del romanzo moderno… Diciamo così: il mio è un romanzo, con una fabula spezzettata nell’intreccio, una quiete infranta e un protagonista. E fin qui niente di nuovo: questo, in fondo, è l’algoritmo di ogni storia. La particolarità è che siamo di fronte a un testo che in un primo momento descrive soltanto un protagonista, poi anche se stesso, e poi ancora il mondo con cui sia possibile descrivere se stesso. Infine termina, perché a quel punto la parola diventa azione, cioè diventa cosa; e allora non c’è più una storia: c’è la realtà, finisce il significante e arriva il referente.»
Qual è la caratteristica che, a suo modo di vedere, esprime al meglio la sua “voce di scrittore”?
L’uso – e l’abuso – di chiasmi, di metri, di paranomasie, di allitterazioni, di suoni. Credo sia questo, soprattutto, a contraddistinguermi. I cinque modi con cui è possibile descrivere un testo ci sono stati tramandati dai retori latini e tre di questi valgono anche per il discorso scritto: elocutio, dispositio e inventio. Muovendomi in questa semantica, direi che la peculiarità principale del mio testo sia l‘elocutio. Anche perché la dispositio è abbastanza progressiva e lineare, e non offre spunti di particolare natura, a parte il finale. Ma il finale non fa parte del testo, è semplicemente un modo per intorbidare le acque. Mentre l’inventio non è affatto farina del mio sacco, ma nasce da un’intuizione di Jorge Luis Borges, senza le cui letture, probabilmente non avrei mai avuto la forza, o il coraggio, di rimettermi ad aprire i libri di filosofia. E senza la cui formidabile fantasia questo mio romanzo non sarebbe potuto esistere. Il mio libro non è nient’altro che l’espansione di una nucleare fantasia borgesiana. Ma da questo punto di vista sono stato onesto, ho chiaramente indicato questo mio debito sin dall’epigrafe.
Nel suo romanzo pare esserci una citazione di Gianni Rodari proprio nel punto in cui la narrazione veste i panni di un racconto per bambini. In quanto autore, ha tratto insegnamenti da questo scrittore, di cui peraltro lo scorso anno è caduto il centenario della nascita?
«Sì, e senza alcuna ombra di dubbio. L’incontro con i testi di Gianni Rodari è stato per me fondamentale, innanzitutto come lettore. La sua travolgente creatività, la sua dilagante competenza, la leggerezza della sua profondità. E, soprattutto, la sua voglia di mettere tutto in discussione, senza avere alcuna remora per trasformare le strutture basilari del nostro linguaggio, ebbene tutte queste intuizioni sono state per me una specie di epifania, sin da bambino. Mi dava fiducia e allegria sapere che nel mondo dei grandi ci fosse qualcuno pronto a porsi gli stessi dubbi che avevo io da bambino, che li esprimeva quasi nello stesso modo con cui un bambino avrebbe potuto farlo e che non considerava la fantasia una minaccia, ma un valore supremo. Da adulto, ho riletto la sua Grammatica della fantasia e l’ho trovata un’opera memorabile, un tesoro incredibile, un manuale d’istruzioni per la vita. Traspariva dalle sue pagine l’amore e la gioia con cui la sua passione per la lettura trasformava in gioco anche le concettualità apparentemente più astruse. Ma chi ha detto che fare dei ragionamenti intorno alla scrittura o alla lingua debba essere per forza un inno alla noia? Nei suoi illuminanti saggi presenti nella Grammatica, Rodari citava autori austerissimi come se fossero suoi compagni di bisboccia. Leggendolo si ritorna quei bambini che finalmente hanno trovato il maestro disponibile a spiegare loro in maniera elementare come fare gli indovinelli, come costruire le metafore, come comprendere i riferimenti. Come giocare col mondo. E ti accorgi di quanta fantasia sia presente anche nella scienza, nella matematica, nella tecnica. Tutto con una soavità che trasuda felicità da ogni riga, contagiandoti e scuotendoti in continuazione. Era molto ironico vedere, nello stesso periodo, che tutti i più dotti accademici d’Europa scrivevano fiumi di parole (spesso inutili, quasi sempre dimenticabili) a proposito delle funzioni narrative di Propp, malcelando la rabbia per non averci pensato prima di lui, mentre Rodari già ci scherzava sopra, rendendole un’attività ludica: ridusse da 31 a 20 le funzioni del russo e le trasformò in un mazzo di carte che i bambini potevano colorare e rimescolare per inventare delle storie. La creatività letteraria ritornava a essere, grazie a lui, quello che avrebbe sempre dovuto essere: un gioco.»
Poco più di cento anni fa nasceva anche Charles Bukowski e Tutta una questione di algoritmo ha ottenuto una menzione speciale al Premio letterario nazionale a lui intitolato, oltre a rientrare tra i finalisti del Premio Montag. Le piace Bukowski? Che opinione ha di quest’autore?
«Adoro Bukowski, e sono innamorato della sua favella quasi quanto della sua biografia letteraria. C’è speranza per tutti di diventare scrittori, anche in età, diciamo così, adulta, grazie proprio a lui, che iniziò a scrivere romanzi a quasi cinquant’anni. Se la sua vita fu eccessiva, caratterizzata dall’abuso di alcolici e da una forte instabilità umorale, non fu così la sua prosa. Chirurgica, essenziale, pittorica, tridimensionale. La sua estraneità rispetto al mondo, dovuta allo stato di emarginazione etilica, gli aveva consentito di essere un grande osservatore. Un osservatore distaccato, capace di vedere l’assurdità ubriacante che le moltitudini delle genti sobrie non erano in grado di vedere nella vita che conducevano ogni giorno. I rapporti economici, le convenzioni famigliari, le trivialità sentimentali venivano letteralmente fatte a pezzi e rese poltiglia fetida per appetiti cannibaleschi dei consumatori occidentali. Eppure nelle sue citazioni poliziottesche, nelle sue esagerazioni erotiche, nelle sue ostentate dipendenze – maledizione! – c’è tanta, tantissima vita. La sua scrittura è la conferma che un approccio minimale riesce ad avere effetti più efficaci di uno magniloquente. Non annoiano mai le sue storie, non si compiace mai del suono della sua favella, non indugia mai in retoriche compiacenti o ruffiane. E anche se non hai niente da spartire con un disadattato investigatore alcolizzato che trascorre il tempo ad ammazzare le mosche e a perdere i soldi scommettendo su cavalli sbagliati, beh, finisci quasi per invidiare il suo personaggio, perché ti sembra di vivere una realtà più reale della tua. Perché un romanziere che all’inizio di un capitolo ti scrive: “Non era una bella giornata. Non era per niente una bella giornata”, ha capito tutto. E soprattutto ha capito come fartelo capire. Ed è un piacere andare a scuola da lui.»
Durante la lettura di Tutta una questione di algoritmo succede spesso di chiedersi quale sia la professione del protagonista. Però la quarta di copertina, che solitamente si legge prima del libro, la rivela. Una scelta editoriale particolare…
«È vero. Su questa scelta dell’editore non ho avuto potere negoziale. Del resto, la revisione del testo è stata molto dialettica. Non si tratta di un romanzo convenzionale e l’editore si è assunto un grande rischio proponendo un lavoro del genere, per giunta con uno scrittore esordiente. Molte scelte stilistiche, sintattiche, persino ortografiche sono estremamente originali, persino eversive. E sono riuscito a tenermele strette, nonostante le ripetute istanze “normalizzatrici” che la consulenza editoriale, comprensibilmente, proponeva. Dovevo pur concedere qualche avamposto. Funzionano così i negoziati. E la quarta era una di queste. Dal mio punto di vista si trattava di una scelta che poteva rovinare la sorpresa su un elemento di tensione del racconto. Però è anche vero che ce ne sono pure molti altri. Secondo l’editore, invece, si trattava di un elemento di riferibilità biografica che poteva creare interesse e curiosità. Forse un altro editore l’avrebbe pensata diversamente. In ogni caso, suggerirò questa indicazione per un’eventuale ristampa.»
Ci consiglia tre libri che meritano di essere letti?
«Questa è una domanda crudele. È come chiedere a un padre: scegli solo tre figli, e abbandona tutti gli altri. La lista dei libri-che-meritano sarebbe lunghissima, e non sono forse neanche autorizzato a stilarla, dovrei prima averli letti tutti. Preferisco citare tre libri evocati, o comunque plasmati da me, nel mio testo. Innanzitutto Todo modo di Leonardo Sciascia, cui è dedicata un’intera sequenza del romanzo: credo che sia un raro esempio di giallo filosofico, nel quale la satira apparente del testo, cela, in realtà, una disamina più grave e profonda sui rapporti tra la fede e la religione. Sciascia è stato un personaggio irripetibile per la nostra storia patria: un raffinato letterato, pur non essendo un laureato; un integerrimo uomo di Stato, pur non essendo mai stato al governo. Un idealista rigoroso, eppure fu tra i pochissimi parlamentari, e letterati, ad aver avuto il coraggio di dire che la linea della fermezza nella vicenda di Aldo Moro fosse un’ipocrita stupidaggine. Quando stava per morire gli comunicarono che un’università siciliana gli avrebbe conferito una laurea honoris causa in letteratura. Ci rimase male, l’avrebbe preferita in giurisprudenza. E l’avrebbe certamente meritata. Ci sono diversi richiami cifrati a Todo modo nel mio romanzo, che vorrebbe essere un piccolo omaggio, e forse anche un po’ un risarcimento per la sua statura morale.
Un altro libro è Pastorale americana di Philip Roth, dal quale ho mutuato una particolare tecnica narrativa in un punto estremamente dinamico del mio testo. È stata un’operazione di armonizzazione semantica, simile alle modulazioni che si fanno nelle composizioni concertistiche.
E infine, mi sento di ricordare anche Milan Kundera, e in particolare Il libro del riso e dell’oblio, per le lapidarie riflessioni sul rapporto tra il comico e il dramma. Argomento cruciale, anche nel mio testo. Consiglio infine L’insostenibile leggerezza dell’essere, perché lì è presente un’irrinunciabile analisi speculare tra l’illusione della realtà e la realizzazione dell’illusione, che è traslata, quasi traslitterata, nei paragrafi finali del mio libro.»
22 gennaio 2021
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Tutta una questione di algoritmo

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Autore: Luca Bovino
Editore: Brè Edizioni
Genere: Moderna e contemporanea
Collana: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2020
Pagine: 132
Versioni disponibili: Cartaceo, eBook
Il libro sui social: luca.bovino.9 – pagina facebook.