Negli anni in cui a San Giovanni Rotondo si costruisce la nuova chiesa di Padre Pio, due ragazzi si conoscono, fanno amicizia e diventano rivali in amore. Sono Salvatore, orfano e aspirante giornalista, e Valentino, ambizioso figlio del più ricco avvocato del paese.
Nel romanzo di formazione La fabbrica del santo, esordio letterario di Leonardo Gliatta, 42enne media strategist pugliese, le luci e le ombre del complicato rapporto fraterno che lega questi due giovani tanto diversi ricalcano quelle della costruzione dell’avveniristico santuario progettato da Renzo Piano. Perché, tra intoppi e accelerazioni, si edificano luoghi di fede ma anche identità.
LA VOCE DELLO SCRITTORE
Leonardo Gliatta racconta
La fabbrica del santo

Leonardo Gliatta, com’è nata l’idea di questo libro?
«È nata tanti anni fa, nel 2010. Volevo raccontare uno spaccato di mondo che conoscevo bene − quello di una comunità piccolissima, famosa per un santo, Padre Pio, che tenta il grande salto commissionando la nuova chiesa all’architetto italiano più noto − e volevo raccontarlo attraverso gli occhi di due ragazzi che stanno diventando grandi. Il lettore assiste dunque a una doppia crescita, quella della chiesa e quella dei due protagonisti, fino al compimento finale.»
A che tipo di lettore consiglierebbe La fabbrica del santo?
«A lettori di ogni tipo: a chi ama i romanzi storici, perché c’è la microstoria del paese che s’intreccia alla macrostoria di quegli anni dell’Italia e del mondo; a chi legge vicende di ragazzi tormentati e inquieti, che vivono gli anni più belli della loro formazione e in cui tutti si possono riconoscere; a chi è appassionato d’arte, perché può ritrovare i grandi nomi del panorama artistico internazionale che sono stati chiamati a rendere unica e bella la nuova chiesa di Padre Pio.»
Perché il suo libro andrebbe letto?
«Perché indaga i sentimenti ambigui e in chiaroscuro di un’età in cui si può ancora essere quello che si vuole, in cui si sperimenta e si vive ogni emozione in modo assoluto e totalizzante. Andrebbe letto anche per scoprire un Mezzogiorno inedito, sospeso tra sacro e profano, colto in un momento di grande trasformazione, e su cui si sono riposte grandi ambizioni, inevitabilmente costrette a essere disilluse.»
Qual è il messaggio che voleva trasmettere?
«Che bisogna stare attenti a quello che si desidera: più in alto si mira, più rovinosa è la caduta. E che ogni cosa ha il suo doppio: mai fermarsi alla prima impressione.»
Si è ispirato a persone reali per caratterizzare i personaggi?
«Ho tratto ispirazione dalla realtà per il personaggio di Valentino, che ricalca la storia del foggiano Raffaello Follieri. Un faccendiere che si era spacciato per emissario vaticano in America e aveva truffato le diocesi, impossessandosi di molti immobili in dismissione. Un uomo che, negli anni Novanta, salì anche agli onori della cronaca rosa per la love story con un’allora semisconosciuta Anne Hathaway.»
Lei si rivede in qualche personaggio?
«Ogni esordio è un po’ un’autobiografia, diceva qualcuno. E anche il mio libro non è da meno. Il personaggio di Salvatore, che racconta in prima persona le vicende del suo paese e la sua amicizia con Valentino, ha diversi tratti del mio carattere. Salvatore è molto curioso, degli altri e del mondo che lo circonda. Sembra il più debole dei due, quello destinato a soccombere, ma nasconde in sé una forza e una resilienza che si riveleranno vincenti.»
Valentino e Salvatore sono legati dall’amicizia e divisi dall’amore. Quale sentimento ha deciso di far prevalere?
«Non prevale mai un unico sentimento: dietro l’amicizia c’è sempre l’amore. Poi siamo davanti a un’età in cui i sentimenti si confondono: è facile scambiare per amore quello che è invece emulazione o identificazione.»
Lei vive da anni a Milano, da sempre tra le città predilette da scrittori di ogni genere. Però ha deciso di ambientare il suo romanzo a Foggia e dintorni, terra che i più immaginerebbero forse come teatro di un poliziesco per la fama che si è guadagnata sui media. Con quali armi ha tentato di abbattere questo stereotipo?
«Foggia e il Gargano sono purtroppo raccontati sui media con toni alla Gomorra, per via di piaghe sociali come il caporalato, la criminalità organizzata e la ‘quarta mafia’. Ci sarebbe tanto da dire, su come bisognerebbe trovare una voce nuova che sappia raccontare questo territorio e crei uno storytelling moderno. Io ho voluto puntare i riflettori su un tema diverso: su un luogo di culto che si sente investito di aspettative che hanno del miracoloso, di un’attesa quasi messianica di salvezza dall’anonimato, e mi interessano di più le questioni legate alla commercializzazione dell’immagine del santo, alle conseguenze di una crescita − troppo veloce e troppo improntata al profitto − di un territorio aspro, per certi versi ancora arcaico. Poi, in altre pagine, lo stereotipo che rende la mia terra famosa nel mondo, l’ho cavalcato, e con piacere: alcuni capitoli sono ambientati in località turistiche come Vieste e le Isole Tremiti, paesaggi ancora poco frequentati dalla letteratura italiana.»
Perché ha deciso di restringere il campo su San Giovanni Rotondo e sulla nuova chiesa di Padre Pio?
«Sono sempre stato affascinato dai luoghi di devozione, che sono centri spirituali che racchiudono forti contraddizioni. Il senso di costruire una casa di culto, oggi, per un santo moderno, un santo pop, se vogliamo, mi ha stimolato la fantasia. Dalla nascita del cristianesimo la volontà di costruire chiese ha significato lasciare un segno dell’eterno su questa Terra, opere che volevano glorificare la grazia divina. In una società come la nostra, del turbocapitalismo, ossessionata dalla produzione di merci usa e getta, l’idea di costruire la fabbrica di un santo, destinata a durare nei secoli è di per sé rivoluzionaria.»
La nuova chiesa di Padre Pio fu progettata dallo stesso Renzo Piano cui dobbiamo anche il nuovo ponte di Genova e venne aspramente criticata per lo stile eccessivamente contemporaneo e le lungaggini della fase di realizzazione. Qual è il suo parere in merito, visto che ha fatto ricerche per il suo romanzo?
«Renzo Piano è una delle archistar che l’Italia può vantare. Non si era mai misurato con edifici religiosi prima della chiesa nuova di San Giovanni Rotondo. Fu da subito osteggiato perché era un ateo, che non avrebbe saputo trarre ispirazione dalla fede per erigere la grande aula liturgica. Ha progettato un’opera molto interessante, interpretando secondo il suo linguaggio i concetti della fede francescana. Peccato che il visitatore medio non abbia gli strumenti per comprendere la modernità del progetto, la reinvenzione degli spazi aggregativi e dei segni liturgici. Ai pellegrini sembra più un garage, un’astronave, un hangar di aeroporto, e chi vi entra rimane spiazzato, perché non ritrova le coordinate spazio temporali di una chiesa tradizionale. La sfida che ha posto Renzo Piano al fedele del futuro è proprio questa: reimmaginarsi, reimpostare il percorso di chi viene per pregare. Forse, però, il suo discorso è stato fin troppo avveniristico e ostico per i canoni attuali. Molto bella l’idea, ma poco funzionale, si direbbe oggi.»
Il suo è stato definito romanzo di formazione. Concorda?
È un percorso di maturazione e presa di coscienza di due ragazzi (tre, se consideriamo anche Marida), che sono accomunati solo da un contesto ambientale. Entrambi perderanno progressivamente l’innocenza dell’infanzia, in modo doloroso, traumatico; passeranno attraverso diverse fasi in cui si chiederanno più volte “chi sono io?”, “chi è lui?” e riusciranno a definire la propria identità per contrasto e opposizione all’altro. La costruzione della chiesa non fa che amplificare la metafora della costruzione della loro identità, il loro farsi uomini.
Com’è arrivato al titolo La fabbrica del santo? Lo ha proposto lei o lo ha scelto la casa editrice?
«È stato il titolo a venire prima della storia, in un certo senso. È un titolo molto evocativo, che ha anche una duplice chiave di lettura. L’ho avuto in mente da subito, appena partorita l’idea del romanzo. L’ho proposto io alla casa editrice, che invece ne cercava uno più diretto, più assimilabile ad altri successi editoriali. Ci ho creduto subito, e penso che questo libro non potrebbe avere un altro titolo.»
La fabbrica del santo potrebbe far pensare a un libro in cui la fede riveste un ruolo preponderante…
«Non è un’agiografia, non tratta temi religiosi. Però, allo stesso tempo, non allontana i credenti, perché ruota intorno alla figura di un santo, realmente esistito e di cui si ha ancora una memoria collettiva.»
Come ha espresso la sua personale voce di scrittore nel testo? In che modo lo ha reso “suo”?
Ho cercato di andare indietro nella memoria, attingendo ai ricordi che avevo di certe parole, di dialettismi, di suggestioni visive della mia infanzia, per ricostruire in forma letteraria il mondo perduto di un borgo del Sud Italia. Ho usato tanti dialoghi, frasi brevi e secche, capitoli corti e incisivi, per dare un ritmo serrato, restituire il senso dell’attesa di qualcosa che sta per arrivare e che è sempre rimandata.
Lei ha studiato Cinema. C’è qualcosa di filmico nella sua scrittura?
«Indubbiamente. La mia è una descrizione quasi fotografica − ho tenuto il testo il più asciutto possibile, con scene che già erano pensate in modo filmico − e poi c’è stato un grosso lavoro di montaggio, fatto di tre linee narrative diverse, che si sviluppano parallelamente, ma che si toccano sempre, fino a confluire nel finale.»
Prevede un seguito di questo libro?
«Il finale non chiude tutte le porte, non dà tutte le risposte. E Valentino e Salvatore potrebbero ancora farsi altro male, mascherato da briciol di bene. Ma credo proprio che abbiano esaurito tutto quello che io ho voluto dire attraverso di loro.»
Quanto è durata la gestazione del testo e qual è stata la parte della lavorazione più faticosa?
«Ho scritto il libro in dieci mesi, nel 2010. Ho fatto molte ricerche, intervistato persone, consultato esperti. Sentivo che non era pronto, e l’ho messo nel famoso cassetto dei libri mai pubblicati. Poi ho deciso, alla soglia dei 40 anni, di riprenderlo in mano. Volevo fare i conti con il passato, e a 40 anni fai un po’ un bilancio della tua vita. Così ho riaperto quel cassetto, ho fatto pace con quello che avevo scritto e l’ho affidato a una editor molto in gamba, che mi ha aiutato a dargli forma compiuta. Il lavoro di revisione, di riscrittura, è stato sicuramente il più faticoso. Anche perché è stato effettuato dopo molti anni dalla stesura originale, e non riconoscevo più granché di quello che avevo scritto.»
A quali fasi di lavorazione ha sottoposto il testo dopo la prima stesura?
«Dopo sette anni dalla prima stesura ho riaffrontato il testo, l’ho sottoposto a un’agenzia letteraria e ci abbiamo lavorato duramente per tirare fuori il midollo. Editing e revisione sono durati un buon annetto, e poi c’è stata la ricerca di un editore, che si è protratta per un altro anno. Lì ho capito che scrivere è una malattia tenace.»
Ritiene che i pareri di coloro che hanno letto il libro rispecchino il suo lavoro?
«Non giudico mai i pareri di chi legge quello che scrivo. Chi ci vede qualcosa che non era mia intenzione far vedere ha lavorato comunque attivamente sulle mie parole. Un lettore di San Giovanni Rotondo mi ha detto di non aver riconosciuto la sua città nel libro. Non importa, non volevo descrivere San Giovanni Rotondo, volevo parlare di un paese di montagna del Sud Italia, sperduto, attraversato improvvisamente da un grande fermento culturale.»
Ha un autore o un’autrice di riferimento che l’ha ispirato anche per questo libro?
«L’idea di collegare una storia piccola sullo sfondo di una storia grande mi arriva da uno dei libri letti durante l’adolescenza, I pilastri della terra, di Ken Follett. È diverso il momento storico e il luogo, ma la struttura divisa in capitoli, che segue progressivamente la costruzione di una grande cattedrale, mi aveva molto impressionato.»
Ci dice tre titoli di libri che consiglierebbe a un amico lettore?
«Troppi paradisi, di Walter Siti. Il primo grande romanzo che parla degli anni Duemila in Italia, in modo lucido e disincantato.
La bottega dei miracoli, di Jorge Amado. I personaggi di Amado sono talmente vivi senza scadere in patetismi, talmente dipinti su un quadro tropicale che non si può non versare una lacrima.
Il cardellino di Donna Tartt. Un’adolescenza spezzata, una crescita difficile, il mondo misterioso dei mercanti d’arte contemporanea. Imperdibile per chi ama la narrazione lunga.»
1 settembre 2020
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La fabbrica del santo

Autore: Leonardo Gliatta
Editore: Ianieri Edizioni
Genere: Moderna e contemporanea
Collana: Forsythia
Anno di pubblicazione: 2020
Pagine: 296
Versioni disponibili: Cartaceo, e-Book
Altri libri dell’autore: Wong Kar-wai (Dino Audino Editore, 2003)
Il libro sui social: Leonardo Gliatta – pagina facebook; @leoardogliatta – profilo instagram.
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